«Le canzoni di Jannacci hanno una caratteristica precisa: ogni volta che le riascolti, riaprono la ferita». Così dice Guido Mezzera, autore del bel libro “Le scarpe del Tennis” (Itaca ed.), otto racconti liberamente ispirati ad altrettante canzoni dello scomparso cantautore. Dal libro, Mezzera ha tirato fuori anche uno spettacolo che lui definisce «teatrale, non musicale», anche se la musica c’è, che sarà presentato questa sera al Teatro Novelli di Rimini nell’ambito del Meeting 2017. Si tratta del primo di otto volumi che col tempo saranno pubblicati, tutti con la stessa struttura, ispirandosi cioè alle canzoni di cantautori come Dalla, De Gregori, Chieffo, Van De Sfroos, Guccini. Ecco cosa ci ha detto.



Per lo spettacolo che presenterai al Meeting quale dei racconti del tuo libro hai scelto?

Sono tre: il primo è Il volto della Madonna, ispirato alla canzone La ballata del pittore; Un po’ diventa chiaro che invece prende spunto dal brano Sei minuti all’alba e infine Le scarpe del tennis ovviamente ispirato a El purtava i scarp del tennis



Uno spettacolo che parte dal tuo libro omonimo: come hai scelto le canzoni di cui scrivere e quanta libertà ti sei preso rispetto ai brani originali?

Nasce tutto dal mio ascolto decennale di musica, ritengo come Pasolini che alcune canzoni siano poesie bellissime. Indago e immagino chi siano i personaggi delle canzoni, penso a che cosa avevano fatto prima e cosa avranno fatto dopo. La libertà che mi prendo è quella di restare nel territorio della canzone e dell’ispirazione dell’autore per un rispetto totale nei suoi confronti. Però mi incuriosisce provare a immaginare chi sono queste persone cantate in tre minuti, mi interessa espandere le intuizioni dell’autore. È una libertà vigilata, la mia, nel pieno rispetto dello spirito della canzone.



Come invece è strutturato lo spettacolo?

Leggerò i tre racconti citati, commentati e interrotti da musiche dal vivo. Al termine di ogni racconto c’è la canzone a cui fa riferimento il racconto eseguita da cinque ottimi musicisti, ma anche durante il racconto ci sono dei commenti musicali che sono  strumentali tratti da altri brani di Jannacci. Abbiamo aggiunto appositamente per il Meeting tra il primo e il secondo e il secondo e il terzo altre due canzoni, Soldato Nencini e Gli zingari che per me è la più bella canzone di Jannacci. 

Musica e parole dunque?

Non solo. Ci sono anche sei coreografie a cura di Laura Massari, due per ogni racconto, e ci sono immagini filmate che commentano i racconti. Ad esempio la vecchia Milano o io che faccio il barbone seguendo una ragazza chiedendole l’indirizzo del centro del tennis.

Qual è l’eredità di Jannacci, oggi? È qualcosa di vivo o appartiene a un passato remoto? C’è qualcuno in grado di raccoglierla?

È una eredità ancora viva ogni volta che si ascoltano le sue canzoni, quando le ascolti con attenzione è come se si riapra sempre la ferita.

In che senso?

La cosa strana di Jannacci è che parlava degli sfigati, dei perdenti in un tempo che oggi non esiste più, sono cambiate le condizioni di vita. Ma quando senti parlare di questa gente di cui lui canta capisci che il primo grande gesto di libertà è accettare di aver bisogno e i personaggi di Jannacci non hanno problema di dirlo, sono dei mendicanti. La sua eredità non è mai persa perché le sue canzoni riaprono questa dialettica. Chi raccoglie questa eredità è chi è disposto a questo gesto di libertà: ammettere di avere bisogno, chi percepisce che la povertà non è economica ma di umanità. 

(Paolo Vites)