Soffre d’ingordigia, dalla notte dei tempi, quell’incivile bestia del terremoto. Puntuale sferra colpi d’aguzzino: è nottambulo, quando il mondo s’appisola per cercare di rimettere in sesto le membra stanche, i corpi appesantiti, i pensieri che il giorno ha lasciato stesi al sole. L’anno scorso è toccato ad Arquata del Tronto, Amatrice, Accumuli e dintorni. Quest’anno la sorte è caduta sull’isola, ad Ischia, zona Casamicciola. La trama è la stessa: l’imprevisto che s’annuncia, la terra a tremare sotto i piedi, le macerie dalle quali s’alzano vagiti di bambini, polveri del fumo, grida di silenzio. Per fisionomia il terremoto somiglia al Dio-cristiano: una miscela di aria e spirito, infiammabili. L’imprevisto è la sua legge, l’evento la sua spada: “Ai terremoti non c’è rimedio alcuno — scriveva il Petrarca poeta —. Se il cielo ci minaccia con le folgori, pure si trova scampo nelle caverne. Ma contro i terremoti non vale la fuga, non giovano nascondigli”. 



A meno che l’uomo — che è sempre imprevedibile quanto il suo Dio — non decida, nell’apparente assenza di Dio, di farsi sua presenza: di farsi tetto per l’uomo impaurito. E’ la storia nuda e tremolante di Ciro, Mattias e Pasquale: storia di tre fratellini che la malasorte del terremoto ha imbavagliato sotto una coperta di macerie. La terra tremolante, la casa che collassa, il mondo frantumato. Ciro, il fratellino, ha la testa che è tutta un rivolo di sangue: per diciassette ore sono rimasti sepolti assieme, facendo del corpo di Mattias una capanna per il fratellino più piccolo: “Eravamo pieni di paura ma gli dicevo di stare calmo — ha raccontato, parole adulte, al Corriere della Sera —. Ad un certo punto avevo deciso che era meglio lasciarmi andare, svenire perché così almeno non avevo paura”. Quando tutto pare morire, c’è un unico scampo, nella regola benedettina: “Inclina aurem cordis tuis” (“Inclina l’orecchio del tuo cuore”). Mattias s’attacca alle parole dei soccorritori, angeli con le lanterne negli occhi: parlandosi nel buio, ascoltando voci-in-soccorso — “Pasqualino è salvo, stiamo arrivando da voi. Aspettateci” — sono usciti vivi, fratturati ma vivi. Dei tre, il più grande è uscito per ultimo: è legge di mare che quando la nave affonda il capitano sia l’ultimo a scendere.



A volte capita. Capita che succeda ciò che ogni burrasca odia.

I tre fratellini — un giorno, già oggi —, racconteranno d’essere nati due volte: dal ventre materno, dalla pancia della terra. La prima-vita è stata dono: non è mai sufficiente, però, a rendere una vita veramente umana. La seconda-vita è stata una promessa: la vita non si umanizza ricevendo un corredo dalla mamma della mamma, ma facendo proprio ciò che si è ricevuto: t’hanno donato vita, tu proteggerai sempre la vita-in-emergenza. La storia di Mattias, del terremoto, nella settimana in cui a Rimini si è svolto il Meeting per l’amicizia del popolo di don Giussani. Nel loro titolo, il sottotitolo della storia fraterna di Ischia, preso a prestito dal genio di Goethe: “Ciò che hai ereditato dai padri, riguadagnatelo per possederlo”. La vita è un’eredità, l’eredità: non basta riceverla per dire di averla vissuta. E’ necessario riconquistarla — salvarla, proteggerla, chini su di lei a rianimarla — per possederla oggi. La nascita, che è storia accaduta un giorno, deve poter riaccadere ogni giorno, in una forma sempre nuova, per mantenere intatta la sua vereconda bellezza. Ad Ischia è accaduto, accade. Accadrà.



E’ più facile che accada di nuovo piuttosto che se non fosse mai accaduto: lo si dice del male. Ma è vero anche del bene: mentre Satana lo pensa sconfitto — “Li ho sepolti!” —, lui scatta in contropiede, ribaltando la partita. Il bene è alleanza: “Ci hanno dato coraggio di stare lì sotto. Senza loro saremmo morti. Vorrei una pizza con loro”. E’ Mattias: parla dei Vigili del Fuoco. Quando tutto crolla, resta l’appetito. Che è sempre appetito-accresciuto di vita.