Per il mondo della medicina sarebbe una bella novità iniziare a ragionare con le parole del titolo del Meeting di Rimini 2018 “Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice”. Perché oggi avviene proprio il contrario e lo vedremo subito. Ma prima bisogna ricordarlo: ci sono delle forze che rendono l’uomo felice! E non sono quelle dettate dal mondo attivista e solitario, ma quelle con cui l’uomo è nato e gettato nella vita: il desiderio di incontrare l’altro, di imparare dall’altro, di accrescere se stesso nelle dimensioni di abbracciare e contemplare il reale. Oggi invece pare che si debba essere felici se il reale invece di abbracciarlo e lasciarsi interrogare da esso si riduce a poche variabili decise in solitudine; e che la garanzia della felicità sia seguire delle regole.
Ecco perché il titolo del Meeting ha a che fare con la medicina, mestiere sempre più trascinato verso la mediocrità da un sistema che riduce il curare alle suddette “poche variabili decise a tavolino” e riduce la cura a non offrire del proprio io nulla in più di quanto scritto nei protocolli e nei mansionari. E lascia infelici, vedi medici e infermieri a rischio di burnout, e descritti come “unhappy” dal British Medical Journal. Dico subito però, per non essere frainteso, che protocolli, e budget di cui parlerò in seguito, sono importanti; ma devono stare al loro giusto posto.
Ho descritto recentemente sulla rivista scandinava Acta Paediatrica questo atteggiamento riduttivistivo della medicina come “effetto Suv“. Dentro un Suv corazzato ci si sente così al sicuro da arrivare al paradosso di abbassare la guardia nei viaggi stradali, rischiando gli incidenti che le corazze del Suv ci illudevano di evitare; così nella medicina l’infinita risma di terapie, di strumenti diagnostici e di protocolli da seguire rischiano un paradossale effetto: la diminuzione dell’attenzione e del contatto col paziente. Si rischia di pensare che facendo tutti gli esami immaginabili, ricoverando per ogni minimo dubbio, alla fine qualche risultato verrà; ma si salta un passaggio: il guardare, il parlare col paziente. Da vari studi ormai sappiamo che il colloquio anamnestico medico-paziente viene ridotto a tempi irrisori; e sappiamo che i medici diventano sempre meno capaci di visitare clinicamente con mani e occhi, tanto che gli storici segni con cui al solo tatto o sguardo si diagnosticava una meningite, una scarlattina, un’appendicite passano nel dimenticatoio, soppiantati dagli esami di laboratorio.
Ma anche gli esami di laboratorio hanno un problema: se si pensa che “più si fanno più risposte abbiamo”, si rischia un cortocircuito, descritto nel 1987 sulla rivista dell’Associazione Medica Canadese come “The Ulysses Syndrome“, cioè gli esami inutili danno risposte non solo inutili, ma anche fuorvianti (valori borderline, falsi negativi, esami da ripetere perché non sboccati in un risultato leggibile dall’apparecchio), e necessitanti di nuovi esami, e poi di altri per avere la conferma tra i due risultati contrastanti, in un percorso che, secondo gli autori canadesi, ricalca ironicamente quello di Ulisse per tutto il Mediterraneo fino a tornare a casa sua a Itaca. D’altronde, come ho recentemente riportato in un dibattito sul Journal of the Royal Society of Medicine, spesso in medicina “quel che facciamo offusca come lo facciamo” (“what we do overshadows how we do it“), nel senso che sentendoci al sicuro con le apparecchiature di laboratorio e con la possibilità di ottenere una pletora di risultati, diventiamo forse meno attenti a segni e sintomi.
Tutto questo tocca anche i pazienti più fragili: come spiegava la rivista Lancet, i medici inglesi (ma non solo) non sanno più trattare le comuni malattie se i malati hanno una disabilità mentale che impedisce un normale colloquio. E tocca i diritti di tutti, quando si afferma che il rapporto medico-paziente si basa non sulla fiducia ma sul consenso informato, come se il rapporto stesso fosse un contratto, e come se oggi il consenso informato non fosse diventato spesso una formalità, o, come abbiamo riscontrato in una recente ricerca, in molti casi una pura liberatoria di responsabilità da far accettare, spesso stilato in maniera complessa. I casi di aggressione spesso riportati dalla cronaca hanno alla base questo discorso contrattualistico: il paziente non si capacita di come il contratto che aveva steso, a suo dire, non sia arrivato in fondo con l’esito auspicato (ma certo non garantito e non garantibile da nessuno). Ricordate bene: se la medicina è un contratto, l’esito non può che essere la litigiosità.
Invece esistono delle forze “che rendono l’uomo felice”: il mondo della sanità è pieno di esempi di dedizione e gratuità, di medici e infermieri che parlano col malato, visitano, creano spazi per sopperire a quelli troppo angusti previsti dalla struttura, e inventano sistemi nuovi rivangando tra quelli dimenticati perché apparentemente obsoleti e dando loro nuova vita. Purtroppo spesso sono fiori non coltivati, isolati, volonterosi ma sproporzionati al regime delle mega-aziende. Tuttavia sono isole di resistenza, sacche di rinascita, embrioni di felicità che fanno brillare il mondo della sanità, così aziendalizzato in senso riduttivo dal sistema (legato a budget, Drg e programmi “Lean” ripresi dalle procedure delle ditte automobilistiche), per la loro capacità di guardare e osservare, come diceva il premio Nobel per la medicina Alexis Carrell (“Molta osservazione e poco ragionamento portano alla verità; molto ragionamento e poca osservazione portano all’errore”). Con empatia e capacità gestaltica, riescono a vedere oltre quello che vedono i soli macchinari, che allora diventano utili supporti di un uomo o una donna che sanno operare correttamente e sanno fare loro le domande giuste. Abbiamo presenti strumenti diagnostici e terapeutici come la “developmental care” o la “saturazione sensoriale” in età neonatale, che si basano sulla capacità di osservare e interagire col paziente e da essa sono nati, portando risultati clinicamente ottimi. Ma anche per la cura di patologie di epoche successive, quante innovazioni sono scaturite dall’osservazione, dallo sguardo che va oltre quello che vedono gli altri (la cosiddetta serendipity)? Basti pensare a quanti farmaci sono stati scoperti per caso da ricercatori che hanno approfondito quello che per gli altri era solo “scarto”, era fuori-protocollo.
Queste sono le forze che rendono l’uomo felice: non quelle delle mega-burocratizzazioni che vorrebbero tenere tutto sotto controllo solo moltiplicando i protocolli; ma quelle che gli fanno abbracciare virtualmente, toccare, guarire l’altro uomo. Perché la felicità non si realizza nella diffidenza reciproca, solo creando strutture “così perfette che rendono inutile essere buoni”: le forze che muovono la storia non sono i comandi degli imperatori, ma il battito del cuore di chi vive la giornata con commozione, interesse e attenzione. Chi gestisce la sanità pubblica e chi organizza i servizi negli ospedali deve ricordarlo: la buona sanità non nasce da una spinta intellettuale o formale, come se bastasse sapere per fare; ma nasce da un desiderio e un interesse personale che diventa contagioso. Senza un incentivo motivazionale ogni incentivo strutturale (ferie, stipendi) si sgretola dopo poco per il calo di attenzione, come nel succitato effetto Suv. “Se vuoi costruire una nave non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi; non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro. Ma invece prima risveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato” (A. de Saint-Exupery).
E’ sulla motivazione che va creata la nuova sanità; non su una spiegazione razionale di conoscenze e di imperativi che lasciano freddi gli operatori. Su una motivazione legata all’imitazione di un modello umano, di persone che già operano motivate e che possono diventare positivamente contagiose. Compito di chi gestisce la sanità: accettare che la sanità è in crisi di mediocrità; e ripartire – se ancora si è in tempo – dalle isole sane di vita e di attività clinica, valorizzandole, rendendole contagiose.