In una delle realtà più difficili di Napoli, il Rione Sanità, noto alle cronache per la diffusa povertà, l’emarginazione sociale e la criminalità, da ormai circa quindici anni è nata una bella storia che dimostra come, partendo dal basso, senza aspettare – come sempre si fa – che a muoversi siano le istituzioni o lo Stato, si può creare bellezza, lavoro e accoglienza. È la storia della Cooperativa La Paranza, ideata dal parroco della basilica di S. Maria della Sanità, padre Antonio Loffredo, insieme ad alcuni amici, che conoscendo le bellezze storico-culturali presenti in questo quartiere, ma quasi del tutto abbandonate, hanno inizialmente preso in mano la gestione delle Catacombe di San Gaudioso, che ha permesso il recupero, la gestione e l’apertura al pubblico delle Catacombe di San Gennaro: “Da luogo chiuso siamo passati oggi a 160mila visitatori all’anno e all’assunzione di 40 giovani” ci ha detto in questa intervista padre Loffredo, che sarà presente oggi al Meeting di Rimini nell’ambito dell’incontro “Il lavoro che verrà”. “Il nostro metodo è quello di dare fiducia ai giovani, di prendere le pietre scartate e farle diventare testate d’angolo. Crediamo che non solo i beni storici, ma i ragazzi stessi siano la carta vincente”.
Il titolo di questo Meeting, “Il coraggio di dire io”, sembra adattarsi perfettamente alla vostra esperienza, che ne pensa?
Infatti, ci sentiamo a casa nostra al Meeting a raccontare questa storia, perché la nostra esperienza si basa proprio su un discorso di sussidiarietà. La nostra esperienza è quella di chi si è accorto che intorno a noi c’erano dei beni che la Costituzione ci permette di chiamare beni comuni, e quindi ci siamo potuti dedicare ad essi essendo noi sul luogo, mentre chi doveva gestirli stava lontano e non poteva farlo meglio di chi in mezzo a questa realtà ci vive, quella del Rione Sanità. In un luogo come il Meeting di Rimini, particolarmente nell’incontro a cui sono stato invitato dove si parla di sussidiarietà, parlerò di come questo approccio abbia permesso la nascita di lavoro.
Infatti, avete ottenuto ottimi risultati, dando lavoro a 40 giovani, giusto?
La cooperativa più grande che fa da motore, La Paranza, è arrivata a dare lavoro a 40 giovani, ma il discorso si basa sulla crescita del territorio e della comunità. Ad esempio, l’Officina dei talenti, che si basa sulla manutenzione ordinaria, offre ad altre 15 splendide persone che sono i soggetti più fragili del rione la possibilità di lavorare. Ci si muove in questa logica, impostando un discorso che si basa soprattutto sulla comunità: è la comunità il soggetto di questo lavoro.
Come comunità intende il quartiere?
Sì, la nostra comunità di quartiere ha una identità molto forte, su questa identità si è cercato di individuare un capitale umano. Abbiamo parlato prima di capitale economico, ma è l’ultimo, quello veramente importante e che è stato stimolato è il capitale reputazionale: cambiare il modo di vedere quel luogo.
In concreto?
Da un luogo da evitare, terribile, il Rione Sanità è diventato uno dei più visitati di Napoli. Poi c’è il capitale sociale e culturale, che ha permesso di recuperare il lavoro sulle persone. Infine, è ovvio, se c’è sviluppo c’è anche crescita, un capitale economico da far fruttare. Il quartiere ha percepito che prendersi carico di beni storici dimenticati ha prodotto a cascata realtà come bar, ristoranti, B&B.
Come avete reagito all’inevitabile problema della pandemia?
I ragazzi non solo hanno resistito nonostante stiano aspettando la cassa integrazione da marzo scorso, ma la cosa bella è che in questo periodo, con le catacombe chiuse per il lockdown, abbiamo pensato a sostenere le persone più fragili. I ragazzi poi hanno avuto l’intelligenza di dire: cominciamo a investire.
In che modo?
Hanno realizzato investimenti fisici ed economici per prepararsi ad un trend di visitatori maggiore di quello che è oggi.
Il vostro modello, che si può chiamare di economia sociale, è esportabile anche nel resto di Napoli, soprattutto nelle periferie dove si vive un profondo disagio sociale?
Sì, pensiamo che questo metodo del dare fiducia ai giovani, prendendo le pietre scartate per farle diventare testate d’angolo, sia la carta vincente: non solo i beni storici, ma i ragazzi stessi. Al Sud forse più che al Nord abbiamo la possibilità di coniugare cultura e sociale, con il recupero del patrimonio artistico che è straripante. Nel mio quartiere è la risorsa più grande e può essere un grande volàno di sviluppo.
Ci sono problematiche contro cui dovete fare i conti?
Il problema maggiore è riuscire a entrare nella gestione di questi beni artistici, che in Italia sono di proprietà dello Stato e della Chiesa. Sono un po’ lenti a reagire alle sollecitazioni che vengono dal basso. La Corte dei conti, ad esempio, non riesce a vedere come i beni culturali possano diventare generativi e non solo redditizi, cioè non solo in grado di fare soldi ma di generare vita. È un concetto diverso di utilizzo dei beni cosiddetti minori, spesso abbandonati. Le catacombe da noi gestite non facevano numeri, adesso contiamo 160mila visitatori all’anno.
Il vostro impegno è in grado anche di creare una rete sociale che possa sottrarre i giovani all’influsso della criminalità organizzata?
Sì, la direzione è questa. I risultati si misureranno con il tempo, non sono immediati, ma intorno al capitale umano si genera una realtà positiva. Il fatto che siamo riusciti a mettere in piedi due orchestre sinfoniche e un teatro sono iniziative che fanno capire come il Rione Sanità stia cambiando.
(Paolo Vites)