Non c’è memoria di un dibattito politico al quale hanno partecipato tutti assieme, seduti uno vicino all’altro (con l’eccezione di un collegamento da remoto), i leader dei principali partiti italiani. Ma soprattutto non c’è memoria di una tribuna politica civile, non urlata, dialogante, che ha sfiorato le due ore di durata senza che nessuno guardasse l’orologio. L’imprevisto è accaduto ieri al Meeting di Rimini. Non è autocelebrazione dirlo, visto che non esiste proprio nessun precedente del genere, a meno di non considerare tali i rarissimi confronti all’americana tra candidati premier alla vigilia del voto.
Ma qui non si vota, non ci sono seggi in palio. Il Meeting ha colto una novità in atto nella politica italiana, emersa con la nascita del governo Draghi e consolidata in questi mesi a dispetto di giornali e tv che sono sempre a caccia di ciò che divide. La novità è che i politici desiderano parlarsi. Lo vogliono fare ragionando, discutendo le idee gli uni degli altri. E accettano di farlo rinunciando a imporsi e facendo spazio all’agenda proposta.
Il confronto di ieri si è sviluppato attorno alle questioni poste dal Meeting: l’idea di democrazia in pericolo, l’importanza dei partiti, dei corpi intermedi, della partecipazione collettiva al bene comune. Il cambio di metodo rispetto al “teatrino della politica” fatto di giornalisti che rincorrono le polemiche di giornata e di politici che volentieri si prestano al gioco è stato evidente. È una pagina nuova nei rapporti tra i leader. Le contrapposizioni non sono mancate. Matteo Salvini, per esempio, si è pubblicamente pentito di avere votato il reddito di cittadinanza. Quasi tutti hanno preso le distanze da Giuseppe Conte, il quale ha ribadito di non voler demonizzare a priori il dialogo con i talebani a Kabul. Antonio Tajani ha criticato la bozza di decreto contro la delocalizzazione delle imprese, difesa invece da Enrico Letta. Viva la differenza, si diceva un tempo in Francia. Viva le differenze, perché altrimenti il dibattito sarebbe finto. Ma non è volato nessun “vaffa”, nemmeno ammantato di buone maniere, e perfino il nuovo leader dei grillini ha detto che l’attenzione al linguaggio entrerà nel nuovo statuto del Movimento.
Sono sembrati molto lontani gli anni in cui la politica, anche al Meeting, coincideva con i leader, come quando vennero Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. Lo schieramento di ieri sotto l’egida dell’Intergruppo per la sussidiarietà dice di un tramonto del personalismo e del ritorno al centro dei contenuti. Non esistono in Italia tanti altri posti interessati a fare dialogare i leader, e non a contrapporli. Il Meeting ha imposto l’agenda della discussione e dettato il clima in cui essa si è svolta, un’atmosfera non di “volemose bene” ma di confronto reale davanti a un applausometro senza rete.
È un inizio, naturalmente. Lo conferma il fatto che, prima e dopo l’incontro in auditorium, gli inviati dei giornali sono corsi a punzecchiare i leader su Durigon, la Lamorgese, la durata della collaborazione di governo, eccetera. I siti dei giornali online ieri sera titolavano ancora sulle contrapposizioni tra Salvini e Letta, che pure nel salone erano seduti accanto e più volte si sono dati ragione l’un l’altro. Gli elementi di conflitto non mancano e il Meeting non intendeva silenziarli o cancellarli. Ma la politica del battibecco e del “teatrino” non è l’unica rappresentazione del Palazzo. Gli scettici vadano sul canale Youtube del Meeting, si guardino le due ore di contraddittorio e ne avranno la prova.
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