A che cosa ci riferiamo, precisamente, quando parliamo di “intelligenza artificiale” (IA)? Di fronte alle straordinarie possibilità di sviluppo e di applicazione delle informazioni, all’interno dei più diversi campi della vita individuale e sociale, la risposta sembrerebbe scontata. L’IA – così ci verrebbe da rispondere – è dovuta semplicemente ad un procedimento di calcolo, formalizzato in algoritmi, che permette di risolvere problemi complessi attraverso la progettazione e la gestione di programmi “intelligenti” per computer.
Ma basterebbe riflettere un momento, per scoprire che questa risposta, suggerita quasi inevitabilmente dal progresso tecnologico, lascia ancora intoccata la domanda iniziale. Come una volta mi confidò una collega titolare del corso di IA in una facoltà di ingegneria, la difficoltà in assoluto più rilevante del suo insegnamento era quella di non poter assumere come acquisita o scontata la nozione stessa di “intelligenza”. Non il suo carattere “artificiale” (e quindi non la nostra capacità di costruirla tecnicamente) faceva problema, ma la natura intelligente dell’essere umano. È l’intelligenza il problema. Essa implica in sé un “enigma” che sarebbe ingenuo, o illusorio, credere di poter risolvere solo partendo dalle conseguenze tecnico-applicative dei suoi calcoli. Il problema è piuttosto chi sia il soggetto – o anche solo il gestore – di questa attività di calcolo; in cosa consista la sua intelligenza.
Questo è il punto che continua a creare problemi a chi voglia capire di che cosa veramente si tratti nella rivoluzione più promettente, più pervasiva e insieme più inquietante del nostro tempo, grazie alla quale sembra realizzarsi l’antico sogno prometeico del pensiero umano: la possibilità che l’oggetto delle nostre conoscenze, i dati della realtà, non ci stiano semplicemente di fronte come qualcosa da ricevere e da riconoscere, ma siano creati artificialmente e prodotti tecnologicamente da noi.
Certo, anche nella ricezione dei dati da parte di un’intelligenza per così dire “naturale”, il soggetto interviene sempre in maniera “creativa” o “costruttiva”, e il nostro modo di ricevere entra inevitabilmente a conformare di sé l’oggetto conosciuto (come sinteticamente avvertiva Tommaso d’Aquino, Quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur). Ma qui si tratta di un’altra cosa, e cioè del fatto che gli oggetti che conosciamo vengano prodotti da noi quasi ex nihilo, partendo cioè non dalla presenza di qualcosa, ma dalla semplice informazione con cui possiamo progettarli. Si avvera così l’ambizione di ogni razionalismo, e cioè che l’esser-dato del mondo possa essere ricondotto “ontologicamente” alla sua semplice possibilità di essere pensato logicamente da parte nostra, cioè programmato come un “possibile” a cui è sufficiente non essere in contraddizione rispetto ad altri possibili.
Ma c’è di più: in questo processo, lo stesso “soggetto” che progetta si assottiglia sempre di più, fino a identificarsi con le sue prestazioni cognitive e le sue funzioni gestionali. L’attività conoscitiva riassorbe in sé il soggetto della conoscenza, e l’intelligenza creatrice di mondi non ha più bisogno di postulare ancora l’esistenza di un “io” intelligente.
Per questo l’emergenza dell’IA da un lato appare inevitabile – quasi un “destino” nella storia millenaria della ragione umana – a motivo dello sviluppo tendenzialmente indefinito delle tecnologie informatiche; dall’altro lato entusiasmante per le possibilità che apre nel supportare e potenziare la vita delle persone: dalla cura medica all’organizzazione degli spazi urbani, dalla gestione statistica di casi giudiziari all’automazione del lavoro, dal recupero di deficit motori e cognitivi all’implementazione dei processi di apprendimento. Senza nascondere naturalmente tutte le ombre legate non solo all’uso distorto delle tecnologie “intelligenti” (ad esempio nell’utilizzo interessato e a volte deviato di una mole enorme di dati sensibili), ma anche all’impatto che l’IA può determinare sull’organizzazione sociale (ad esempio nel bilancio squilibrato tra posti di lavoro che scompaiono per le nuove tecnologie e nuovi profili professionali che si dovrebbero creare).
Ma a me sembra che l’emergenza più interessante, prima ancora di tutti gli interrogativi “etici” (pur assolutamente urgenti) sull’impiego delle conoscenze fornite dall’IA, consista in una domanda semplice ma decisiva: che cosa caratterizza come “umana” l’intelligenza? La questione critica, infatti sta in questo: dobbiamo assumere l’artificiale (cioè la capacità di calcolare) come il criterio definitivo del conoscere umano? O viceversa dobbiamo cercare nella domanda costitutiva del nostro stare al mondo come esseri intelligenti, cioè nella ricerca del senso, nella coscienza di “perché” di noi stessi e delle cose, il criterio per poter computare “umanamente”? E se il segreto dell’IA fosse proprio il suo fattore umano?