L’allestimento rimanda a una delle più celebri costruzioni del neolitico, l’insediamento circolare di Stonehenge, un po’ tempio sacro un po’ osservatorio astronomico: qui sono solo tredici i pilastri, che nella loro forma geometrica richiamano più che altro il monolite della scena finale di 2001 Odissea nello spazio, abbandonando però l’enigmatica superficie grigia e uniforme per animarsi con alcune delle più spettacolari e significative immagini che dominano la scena scientifica moderna.
Con questo mix di passato, presente e futuro si presenterà al visitatore del prossimo Meeting di Rimini la mostra In oculis facta. Il ruolo dell’immagine nella conoscenza scientifica, realizzata a cura di Associazione Euresis e Camplus. La possiamo visitare in anteprima per offrire ai lettori del Sussidiario un assaggio dei temi presentati e che saranno approfonditi sotto diverse angolature durante la settimana riminese nella Agorà che ospita l’esposizione e che vedrà dialogare col pubblico ogni giorno astrofisici, biologi, fisici, ingegneri, matematici ma anche fotografi, filosofi, sociologi.
Ciò che si vuol mettere a tema è ben indicato nel titolo: è il ruolo che le immagini ricoprono nella conoscenza scientifica, un ruolo che appare cruciale nelle scienze dei nostri giorni ma che è stato rilevante, pur con differenti modalità e con più limitate risorse strumentali, fin dagli albori della conoscenza scientifica. Proprio per questo l’installazione megalitica centrale è circondata da un caleidoscopio di immagini che ci fanno attraversare tutte le epoche storiche seguendo gli scienziati nei loro tentativi di osservare la realtà naturale fin nei minimi dettagli e di rappresentarla in modo da poter comprenderne sempre meglio il comportamento.
Una straordinaria genialità ha permesso di costruire strumenti in grado di aiutare i nostri occhi a “vedere”: si pensi al telescopio e al microscopio; e poi all’avvento della fotografia, diventata subito alleata degli scienziati che l’hanno utilizzata per indagare il microcosmo e il macrocosmo e che oggi analizzano le immagini digitali fino all’ultimo pixel e indagano fenomeni altrimenti inaccessibili grazie ai potenti software di simulazione e alla realtà virtuale.
In tutto questo si manifesta una esperienza conoscitiva ben sintetizzata da Teilhard de Chardin che diceva: “La storia della scienza naturale può essere riassunta come l’elaborazione di occhi sempre più perfetti entro un cosmo nel quale c’è sempre qualcosa di più da vedere”. Il susseguirsi delle immagini che circondano lo spazio espositivo e le gigantografie che campeggiano al centro, danno un’idea immediata del cammino evocato dallo scienziato-teologo, dove la potenza e la ricchezza delle immagini vanno di pari passo con il desiderio umano di penetrare sempre più nelle pieghe della realtà naturale e stimolano un incalzare di domande sempre più precise e stringenti che ogni tanto trovano risposte per poi proiettare la creatività del ricercatore verso nuovi e più pressanti interrogativi.
Le immagini al centro di “In oculis facta” esplorano, a titolo esemplificativo, due ambiti di ricerca: i componenti fondamentali dell’universo a piccola e grande scala e la complessità del corpo umano.
Troviamo così alcune immagini che si sono guadagnate, nell’ultimo decennio, le prime pagine di tutti i giornali del mondo e che anche nell’immaginario collettivo rappresentano i grandi traguardi della ricerca contemporanea. Come la ricostruzione dell’evento che ha portato, nel 2012 presso l’acceleratore LHC del Cern di Ginevra, alla scoperta del bosone di Higgs, la particella che permette alle altre particelle elementari di essere dotate di massa.
O come la mappa del fondo cosmico di microonde, ottenuta in base alle misure ultraprecise effettuate dal satellite Planck raccogliendo i fotoni partiti 13,8 miliardi di anni fa e testimoni dell’universo neonato: l’immagine mostra le piccole disuniformità che non sono altro che i “semi gravitazionali” dai quali via via si sono formate le galassie, le stelle, i pianeti e tutta la ricchezza che osserviamo nell’universo attuale.
O ancora, l’ombra del buco nero, che ha fatto notizia nel 2019 quando è stata pubblicata per la prima volta l’immagine di un anello di materiale supercaldo che circonda un corpo celeste con massa superiore a sei miliardi di volte quella del Sole e che si trova al centro della galassia M87. Un’ennesima conferma della teoria della Relatività Generale di Einstein e uno stimolo agli astrofisici a cercare di immortalare altri buchi neri che si trovano molto probabilmente al centro della maggior parte delle galassie, Via Lattea compresa.
E non poteva mancare un richiamo al più recente show galattico, quello che ci ha offerto il Telescopio Spaziale Webb che un mese fa ci ha sorpreso rivelandoci con estrema nitidezza dettagli di galassie che viaggiano in compagnia a 290 milioni di anni luce da noi. Ma di questo al Meeting si parlerà in modo ancor più approfondito in un grande incontro il 23 sera, con la partecipazione di scienziati protagonisti diretti di questa straordinaria avventura.
Altre immagini presentate sono meno popolari ma altrettanto eloquenti e spettacolari. A cominciare dalla Nebulosa di Orione, da sempre il più fotogenico degli oggetti celesti: una fantasmagorica e turbolenta “culla di stelle”, distante da noi soli 1.300 anni luce, composto da circa 2mila stelle neonate incluse alcune rare giganti blu.
Sempre in tema di nascite, suggestiva e al tempo stesso istruttiva è l’immagine del sistema PDS 70: una stella nascente circondata da un anello luminoso che rappresenta il disco protoplanetario destinato ad evolvere per diventare un sistema di pianeti orbitanti attorno alla stella centrale, come è accaduto circa 4,6 miliardi di anni fa per il nostro Sistema Solare. L’immagine consente di osservare già due dei pianeti in formazione ed è stata ottenuta dall’osservatorio ALMA, un complesso sistema di 50 antenne piazzate a 5000 m di altitudine nel deserto di Atacama in Cile che operano come un unico gigantesco telescopio.
Dal macrocosmo al microcosmo. Da quando nel Seicento piccole parti del corpo umano sono finite sotto la lente di un microscopio, la riproduzione di immagini biologiche ha fatto enormi progressi e a cavallo del nuovo millennio ha visto un’ulteriore accelerazione. L’avvento della microscopio a fluorescenza ha aperto grandi possibilità, consentendo la visualizzazione selettiva di strutture cellulari, lo svolgimento di test funzionali e la rilevazione di sostanze non biologiche nell’organismo.
La visione dell’interno del corpo umano è iniziata, sul finire del XIX secolo, con la scoperta dei raggi X e delle loro applicazioni in campo medico: l’immagine radiografica della mano della signora Roentgen è la prima di una lunga serie di immagini di cui, poco o tanto, tutti abbiamo esperienza e che sono tuttora insostituibili per molte diagnosi e cure. Il panorama dell’imaging in medicina in effetti oggi è molto esuberante e a tutti sono abbastanza familiari i riferimenti a pratiche come l’Ecografia o la Risonanza Magnetica e sigle come la TAC o la PET. Sono metodiche molto potenti ed efficaci, che danno immagini ricche di informazioni e che, proprio per questo, vanno scelte opportunamente e interrogate intelligentemente.
E così torna in campo il soggetto dell’impresa scientifica: mentre gli strumenti di osservazione si potenziano e ci aiutano a farci un’immagine del mondo sempre più realistica, cresce in noi la domanda sul significato del reale e sul rapporto che noi abbiamo con l’universo che ci ospita; insieme alla passione per l’investigazione di ogni particolare cresce un interesse più profondo, comune a tutti i tentativi autenticamente umani: la passione per l’uomo e per la realtà tutta.
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