Confesso di ritenermi fortunato; anzi dobbiamo ritenerci tutti fortunati per appartenere ad una storia che ha generato un immenso fiume di immagini. È l’immenso fiume di immagini che costituiscono il tesoro della storia dell’arte e che sono parte insostituibile del nostro paesaggio umano. Sono immagini che è scontato e banale definire belle, perché in realtà sono qualcosa di più: sono esito, libero e mai uguale a se stesso, di quella originale esperienza che aveva fatto breccia nella storia umana duemila anni fa. Un’esperienza reale, affascinante e che per questo si proponeva e si comunicava attraverso i sensi: l’ascoltare, il toccare, e soprattutto il guardare.
Come ci aveva fatto scoprire padre Ignace de La Potterie, grande esegeta gesuita, in occasione di un servizio che aveva fatto una copertina di “30 Giorni” nel 1992, nel Vangelo di Giovanni le occorrenze dei verbi che indicano “scorgere, accorgersi, vedere, guardare” sono superiori a quelle del verbo amare. La fede scaturisce da un guardare e da un essere guardati. Che è esperienza al presente. Come leggiamo in don Giussani «Si guarda Gesù guardando il permanere della sua persona nel tempo e nello spazio» (Tischreden, L’attrattiva Gesù). Le immagini sono in questo un aiuto, un richiamo, un “dono” che il Dio fattosi uomo in un momento preciso della storia, ci ha fatto. Un Dio che chiede di essere guardato.
“Nacque il tuo nome da ciò che fissavi” è il verso di una poesia di papa Wojtyla che è stato scelto come titolo del Meeting di quest’anno. Il riferimento all’episodio della Veronica, la donna che ricordiamo nella VI stazione della Via Crucis, che asciugò il volto di Gesù sulla via del Calvario. Il suo nome, “vera icona”, viene dal fatto che aveva fissato il volto di Gesù in una doppia accezione: lo aveva guardato sino a riconoscere in quel volto la radice del proprio essere, ma ne aveva anche fissata l’impronta sul velo, rendendolo presente nella forma di un’immagine e permettendo come ricaduta anche a noi di rinnovare quell’esperienza: fissare il volto di Cristo.
A dispetto di quanto la parola potrebbe suggerire ingannandoci, “fissare” è un’esperienza radicalmente dinamica; per essere vera, per essere credibile, non può mai essere uguale a se stessa (altrimenti il rischio è che si trasformi in una “fissazione”, cioè una proiezione mentale nostra). Non lo è evidentemente dal punto di vista nostro, che siamo portatori, ciascuno, di una diversità e unicità irriducibile, ma non lo è neanche sotto un altro punto, quello che oggi mi piace approfondire con voi: è il punto dell’immagine e di chi la fa essere; cioè degli artisti che nei secoli hanno saputo generare e rigenerare di continuo quell’immagine prototipo della Veronica, dando vita all’immenso fiume visivo di cui dicevo, che nei secoli ha accompagnato la vita delle donne e degli uomini, consolandoci, commovendoci, sostenendoci.
Se la ragione di un’immagine è quella di permettere a noi l’esperienza di un “guardare”, non si dà grande immagine che non nasca a sua volta dalla libertà e anche dall’audacia di immaginazione e quindi di sguardo di un artista. Infatti, ciò che distingue una grande opera da un’opera bella e onesta, è proprio la capacità di fare dell’esperienza del guardare non una ripetizione, ma un qualcosa di nuovo, di “mai visto”, di non messo sul conto, di imprevisto, in un certo senso, a volte, anche di inaudito: pensiamo all’audacia con cui Caravaggio reimmagina l’Incredulità di San Tommaso, con lo sguardo dell’apostolo che “perfora” la ferita del costato di Cristo.
Le grandi opere presuppongono sguardi “in atto” e non soltanto rappresentati. Ed essendo “in atto”, continuano a essere degli avvenimenti anche per noi che puntiamo gli occhi su di loro: immagini nostre contemporanee.