No, non è stata la fine della storia. Che lo fosse davvero lo dichiarò allora Francis Fukuyama. Ma nel 1989 lo pensarono/lo pensammo in molti. Magari in forme più complesse e sfumate. Anche la formula del “secolo breve” – titolo di un libro fortunato di Erich Hobsbwam – alludeva, seppure in modo meno perentorio, ad una conclusione: quella del settantennio iniziato con la Rivoluzione d’Ottobre. Gran parte del secolo non era stato dominato dallo scontro tra comunismo ed anticomunismo? Il muro di Berlino non era stato innalzato nel 1961 in piena guerra fredda? Come non pensare che il 9 novembre 1989 finiva il Novecento, con la vittoria dell’Occidente, dei suoi valori, delle sue istituzioni?
E invece no. La storia non è finita allora. E ciò che è venuto dopo non ha confermato il trionfo di un Occidente rimasto apparentemente senza rivali. Appena pochi mesi dopo la caduta del muro di Berlino, nell’agosto 1990 è scoppiata la Guerra del Golfo, che ha segnato l’inizio in una lunga e tormentata vicenda, proseguita poi con l’attentato dell’11 settembre alle Torri Gemelle, la spedizione americana in Afghanistan del 2001, la Guerra in Iraq del 2003 e tutto ciò che ne è seguito: la nascita dell’Isis, la tragica guerra in Siria non ancora finita, le migliaia di profughi che cercano di raggiungere anche oggi l’Europa…
Sono vicende rivelatrici di un mondo che la globalizzazione rende sempre più multipolare e in cui nessun può esercitare un ruolo egemonico. Iniziato ben prima del 1989, è un mondo sempre più affollato di grandi multinazionali e di mercati emergenti, di nuovi protagonisti – dai paesi arabi alla Cina, dall’India al Sudafrica, dal Brasile alla Russia – e attraversato dall’influenza di molteplici civiltà e religioni.
È stata la globalizzazione che ha fatto crollare il blocco sovietico e tra il 1989 e il 1991 non è finito solo il “secolo breve”, ma anche il “secolo americano” e cioè il lungo periodo, cominciato dopo la Prima guerra mondiale, in cui gli Stati Uniti hanno sostituito l’egemonia europea sul piano economico, politico e valoriale. I miti sorti con la caduta del muro di Berlino sono stati smentiti dalla storia. Ma c’è chi continua a pensare in termini di guerra fredda e di contrapposizione tra l’Occidente e i suoi nemici, identificati oggi con la Cina o l’Iran.
Anche in Italia abbiamo pensato che la caduta del muro di Berlino regolasse vecchi conti rimasti in sospeso per quarant’anni. È venuta la Seconda Repubblica e abbiamo ricominciato a litigare tra ex comunisti ed ex anticomunisti. Pensavamo che la democrazia avesse vinto definitivamente e invece sono venuti l’antipolitica, il populismo e il sovranismo. Sono persino tornati il fascismo e il razzismo che credevamo sconfitti definitivamente. Avvertiamo anche in Italia gli echi di quel suprematismo bianco che sempre più spesso si trasforma in terrorismo.
L’interpretazione del 1989 come trionfo dell’Occidente ha pesato anche sulla Chiesa. Giovanni Paolo II è stato presentato come un alleato dell’Occidente che combatteva insieme a Reagan contro l’“impero del male”. Questo papa ha avuto certamente un ruolo nella fine del blocco sovietico, soprattutto per quanto riguarda la Polonia. Ma non ha interrotto l’Ostpolitik dei suoi predecessori e non ha guidato dall’esterno una crociata contro il regime polacco: ha operato invece per favorire un cambiamento graduale, pacifico e senza spargimenti di sangue. Soprattutto, non ha mai sostenuto una occidentalizzazione del mondo, come disse chiaramente a Gorbacev in un incontro a Roma proprio del 1989. Dopo il 1989, ha portato il Vangelo nel mare aperto di un mondo sempre più molteplice e variegato: i suoi incontri con ebrei e musulmani, il suo impegno per il dialogo interreligioso, la sua fermissima opposizione alla Guerra in Iraq sono eloquenti.
Oggi c’è chi vorrebbe fare di Giovanni Paolo II il simbolo di una nuova guerra fredda etica, religiosa e ideologica. Il difensore della civiltà occidentale. Ma nel suo lungo pontificato, Karol Wojtyła è stato soprattutto uomo di dialogo e di pace. C’è in questo senso una continuità profonda tra lui e papa Francesco. Sono entrambi papi del Concilio Vaticano II – ognuno ovviamente con le proprie esperienze e sensibilità – ed entrambi dentro una visione dell’intera “famiglia umana” quale fraternità tra diversi, come Francesco ha detto nel recente discorso di Abu Dhabi.
Questi due papi ci indicano anche che, nel mondo di oggi sempre più globalizzato ma anche sempre più frammentato, l’unità europea resta un obiettivo fondamentale. Giovanni Paolo II ha sempre immaginata l’Europa unita dall’Atlantico agli Urali e capace di respirare non con un solo polmone ma con due insieme: quello della tradizione occidentale e quello della tradizione orientale. Papa Francesco ha esortato più volte gli europei a ritrovare se stessi, le proprie radici umanistiche, la propria tradizione di solidarietà accogliendo rifugiati e migranti. Il 1989 fu un momento di grande speranza per l’Europa che vide allora dissolversi la cortina di ferro causa di tante dolorose lacerazioni. A differenza di altre speranze di allora, quella in un’Europa più unita e più forte resta valida anche oggi, di fronte a divisioni e nazionalismi che la vorrebbero riportare agli anni bui tra le due guerre.