Ti accoglie, a segnare l’ingresso della mostra, il viso di una giovinetta: lo sguardo denso e insieme incerto, sospeso, come davanti a qualcosa che non si capisce, che non si conosce, che ti costringe a sgranare gli occhi, quasi a dire: io; uno sguardo silenzioso che ha conosciuto la paura, o l’orrore, o invece – lo sa – sta per esserne toccato; che ugualmente si offre alla vista, testimone indifeso dell’umano, del suo pur impaurito eroismo.
Sulla tela il viso si compone in una sorta di immagine termografica nella quale i colori lucidi e innaturali dello smalto sembrano registrarne le variazioni di calore come in un esame medico. Una tecnologia propria dell’ambito tecnico e scientifico, ma che viene normalmente usata anche nel restauro di opere d’arte; e che Massimo Pulini, artista di rilievo internazionale, ospite della mostra allestita dall’Istituto Oncologico Romagnolo, organizzazione non profit che si occupa di assistenza ai malati oncologici e di ricerca fondi per la ricerca, e che quest’anno compie 40 anni, usa per “sondare l’interno del corpo umano e in qualche misura entrare anche dentro la storia, inaugurando visioni nuove della nostra natura”.
Visioni che in qualche modo misterioso, e anche imprevisto, come accade sempre con l’arte, si allargano a rappresentare l’umanità in quel suo punto fondo e misterioso, al di sotto degli strati di coscienza, nel quale l’uomo, come un bambino, si ritrova solo e indifeso. Come davanti all’ingiustizia del mondo, agli orrori della storia o anche solo personali, come la malattia.
In mostra, a fianco dei pannelli che raccontano la storia dell’oncologia, si sviluppa una galleria composita di questi ritratti, su legno o scavati nella resina, a volte diretti, sfrontati, a volte deformati, ma tutti con lo stesso senso di vuoto, un sapore solo di attesa: sospesa la vita, i propri ricordi, i progetti, le cose da fare, che si vorrebbe provare, vedere. Feriti, come ferisce la bellezza, come ferisce la malattia; forse l’analogia più potente per dire il dolore e, insieme, la sorpresa di una umanità che è più grande della propria fragilità.
Così, se pur si può raccontare l’oncologia attraverso l’evoluzione delle scoperte scientifiche, la novità delle cure, i suggerimenti per la prevenzione (e la mostra comprende tutto questo), ogni passaggio è anche accompagnato da una storia personale che ne rende evidente l’aspetto più intimo e umano.
Come quella di Lamberto Valli, un giornalista radiofonico, la cui vicenda risale alla fine degli anni 70, gli stessi della fondazione dello Ior.
“Quando mia moglie Maria Angela, al risveglio dall’operazione, mi disse il male che avevo, (…) non mi sembrò serio fare una scommessa con Dio; non Gli chiesi di togliermi il male: questo lo chiedo ai medici, Gli chiesi la forza per non disperarmi e che mi conservasse la gioia di vivere. (…)
Da dieci anni il mio lavoro mi portava in giro per il mondo a studiare il comportamento della gioventù, ma c’era un pezzo di mondo che ignoravo e che mi è stato utile conoscere: il mondo delle quattro mura di una clinica. Tutta quella umanità che incontravo a New York, a Londra, a Stoccolma, a Tokyo si era ridotta all’umanità della clinica. E ho capito che l’autenticità dell’umano si può scoprire sia lungo le strade del mondo sia nel percorrere lentamente, in pigiama, dieci metri di corridoio in ospedale. […] Quando Cristo dice a Lazzaro morto “Vieni fuori” c’è tutta l’umanità di Cristo che incontra tutto Lazzaro, ama il malato come uomo da salvare, da ridare alla vita, non ama la malattia di quell’uomo come una scommessa professionale da vincere. Perché quando la ferita è guarita, non è ancora guarito l’uomo”.
O quella dei volontari che, fin dalla sua nascita, caratterizzano in modo originale l’Istituto.
“Si trattava di pazienti terminali, tutti. I volontari facevano compagnia al paziente, all’assistenza medica invece provvedevano gli infermieri e il medico. (…)
Mi ricordo, di quei primi tempi, una signora di Roncadello, malata di tumore in stato terminale, che aveva sei figlie ma chiedeva che stessi io con lei perché non voleva, diceva con me, farle soffrire con la sua sofferenza; e io stavo lì e le tenevo la mano. Poi, una notte, una delle figlie, alle undici, undici e mezzo, mi chiamò e io mi infilai sopra il pigiama una maglia e via, in ciabatte. Arrivai che stava morendo.
Quanti ammalati ho vestito, e non l’ho mai detto a nessuno; perché in casa non c’era qualcuno che ci riusciva e perché altrimenti avrebbero dovuto chiamare le pompe funebri, e sarebbero state delle spese in più, magari non avevano tanti mezzi. Così, ad esempio, il marito anziano mi diceva: Adesso come facciamo? e io rispondevo: Non si preoccupi, piano piano lo facciamo. E li aiutavo”. (Graziella Salaroli, prima coordinatrice dei volontari Ior)
O, infine, con le parole del suo fondatore, il professor Dino Amadori, in cui trovano sintesi la caparbietà e la tenacia di una schiera di medici e di ricercatori che ogni giorno cercano una risposta al mistero doloroso del cancro.
“Capire la malattia, forse è questo il punto focale in cui consiste il sogno della mia vita; ma potrei anche chiamarla, e senza forzare troppo le parole, la mia ossessione personale. Nel senso di un confronto che riguardava me e quella malattia. Quella ossessione non mi ha più lasciato ed è così che ho scelto di dedicarmi all’oncologia, disciplina che coltivo ormai da cinquant’anni e che pratico tuttora”.
“Capire la malattia”: è questo in fondo anche lo scopo della mostra; capirne meglio gli aspetti scientifici, l’evoluzione, le nuove possibilità di cura, ma allo stesso tempo ammirare e, più propriamente, almeno in senso cristiano, adorare il vero volto dell’uomo in mezzo al dolore.
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“Vicino a chi soffre, insieme a chi cura”
Mostra prodotta in occasione dei 40 anni di attività dell’Istituto Oncologico Romagnolo. Meeting per l’amicizia fra i popoli, Rimini. Padiglione C3 Area Sanità