Incontriamo Paolo Vites a qualche giorno dall’inizio della 40esima edizione del Meeting dell’Amicizia tra i popoli, dove presenterà il suo spettacolo, intitolato “Eric Andersen e il Greenwich Village, un laboratorio culturale”. Si tratta di un reading, da lui ideato ed interpretato, che vedrà anche la partecipazione del cantautore Francesco D’Acri, accompagnato dalla voce di Eleanor Mary De Veras. Uno spettacolo interessante, già presentato in alcune località del nord Italia e che ora sale sul palcoscenico dell’importante e noto evento culturale dell’estate riminese. La prima domanda sorge proprio dal contesto del Meeting e dal titolo stesso, che parla di quel quartiere ad ovest di Manhattan, New York, come di un luogo che negli anni sessanta divenne teatro di un nuovo laboratorio culturale.
Senza anticipare nulla dello spettacolo, cui assisteremo, puoi dirci qualcosa dell’atmosfera che ci prepariamo a respirare?
L’idea è quella di raccontare uno di quegli eventi che, come spesso capita nella storia dell’umanità, per una serie di coincidenze, ha messo insieme delle persone in uno stesso luogo, in gran parte giovanissimi, che avevano il medesimo desiderio: riscoprire l’America, il loro paese, quello che ne rimaneva dei grandi ideali che erano stati alla base della sua fondazione, attraverso la riscoperta della musica popolare su cui innestavano testi che facevano riferimento ai grandi eventi di quel periodo storico, i primi 60, e cioè la Guerra fredda, l’incubo della bomba atomica, la lotta per i diritti civili degli afroamericani, il maccartismo, cioè la discriminazione di chiunque era “diverso”.
Nel titolo dello spettacolo si parla di Eric Andersen. Tu, Paolo, sei autore, insieme a Roberto “Jacksie” Saetti, della prima biografia ufficiale su questo cantautore, figura importante sulla scena del Village di quegli anni e discretamente conosciuto anche in Italia, ma mai giunto, purtroppo, al pieno successo che avrebbe meritato. Nello spettacolo riusciremo a scoprire un po’ di più questo personaggio?
Certamente, lo spettacolo nasce proprio da quel libro che mi ha portato a riscoprire quel periodo storico che tanto avevo amato da giovane e quei cantautori come Andersen e Bob Dylan che si possono definire i padri della moderna canzone d’autore.
Impossibile non associare Andersen, il Village e gli artisti che frequentavano quella scena, al protagonista principale intorno al quale tutto ruotava nei primi anni sessanta, Bob Dylan, capofila di un’intera generazione ed oggi insignito anche del premio Nobel della letteratura. Immagino che anche nello spettacolo la sua figura rivestirà un ruolo centrale, magari ce ne puoi dare qualche anticipazione.
Bob Dylan è presente come una sorta di spirito ispiratore: tutti, da allora a oggi, si sono ispirati a lui. Ha cambiato per sempre il concetto di canzone popolare. E lui stesso ha contribuito a distruggere quella scena del Greenwich Village, quando ha capito che gli stava troppo stretta, rinchiusa in una sorta di ideologia politica e musicale. Come sempre i grandi movimenti della storia finiscono prima o poi per fossilizzarsi e Dylan non era uomo da rimanere chiuso in un ghetto. Lui ha sempre aspirato a di più, al cuore dell’uomo e ai suoi bisogni.
Come raccontato nel tuo libro, Eric Andersen, ad un certo punto, definisce se stesso “semplicemente un folksinger”, quasi che questo termine, a distanza di anni, esprimesse qualcosa di umile e riduttivo. In realtà, come si legge proprio nel libro, “se siamo alla ricerca di canzoni che raccontino la realtà al di là delle manipolazioni dei media o della politica, abbiamo bisogno di loro, dei folksinger, di una scrittura narrativa, emotiva, libera e, nel caso di Andersen, profondamente personale”. Questo è interessante, perché approcciarsi al tuo spettacolo, reading e canzoni, sembra proprio andare in questa direzione: non si tratta di raccontare una scena musicale, ma di spiegare come l’arte sia in grado di mostrare meglio la realtà scavando sotto alla superficie.
Oggi viviamo in un’era storica tristissima, in cui tutti è frazionato, diviso, dove non esiste più un ideale comune e anche l’Io è spezzato, frantumato. Ognuno è convinto di bastare a se stesso. E’ il frutto di Internet, che ha creato un mondo di persone sole, ognuna convinta di essere depositaria della verità. Non c’è più nessuno capace di non adeguarsi a questo vuoto pneumatico, Dio sa che bisogno ci sarebbe di gente che canta la vita, invece di guardarsi l’ombelico.
Il vostro spettacolo mi sembra particolarmente centrato con il titolo del Meeting: “Nacque il tuo nome da ciò che fissavi”. Non è stato così, in fondo, anche per gli artisti che frequentavano il Village? Tutti quei ragazzi pensavano di cambiare il mondo con la loro chitarra e le loro canzoni, ma forse, invece, stavano semplicemente formando e cambiando se stessi. E’ come se ciascuno di loro abbia assunto la propria fisionomia, unica e irripetibile, anche perché l’ambiente in cui hanno vissuto, ciò che guardavano, ha consentito alla sua personalità di realizzarsi pienamente. Cosa ne pensi?
Assolutamente. Quei ragazzi guardavano verso un punto unico, l’America, e così facendo ognuno di loro trovò la sua strada, la sua identità e contribuirono in questo modo a cambiare la società in cui vivevano. Come dice Paul Simon in una sua celebre canzone: “All come to look for America”, tutti siamo venuti in cerca dell’America. Che poi ha anche un forte significato di attualità, se pensiamo che l’America è stata costruita da razze e religioni di ogni tipo, e oggi si costruiscono muri per isolarsi nel proprio orticello di benessere cacciando fuori del muro i diversi.
Come già detto, non vogliamo anticipazioni sullo spettacolo, per goderne realmente appieno al Meeting. A me piace una frase, che ho letto ancora nel tuo libro su Andersen, e che parla di canzoni capaci di “tenerci al sicuro dal buio più profondo” e “colme del contenuto emotivo uguale a quando un buon amico ti sussurra delle storie all’orecchio in un bar a notte fonda”. Sarei quindi già contento di uscire da questa serata dopo un’esperienza così. Ma l’autore del libro e dello spettacolo cosa spera, cosa augura al suo spettatore?
In un mondo in cui la banalità, il cinismo, la divisione, l’annichilimento dei desideri del cuore sono stati diventati la misura dell’uomo moderno, io spero che ci sia almeno una persona che tra il pubblico possa uscire dalla serata con la voglia di riscoprire queste canzoni e questi uomini. E in questo modo, accada come allora: che si vada ognuno in cerca non solo dell’America, ma del nostro cuore.
L’appuntamento per tutti, allora, è alla fiera di Rimini, questa sera lunedì 19 agosto alle ore 22. L’open arena Illumia Piscine Ovest si trasformerà in Washington Square, New York e noi non vogliamo perdere l’occasione di essere spettatori protagonisti di questo evento.