Giovedì Carlo Cottarelli su La Stampa, domenica Mario Monti sul Corriere della Sera, ieri l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, in un virgolettato d’agenzia di primo alert mediatico. È un confronto in sé elitario, molto “internazional-milanese” quello apertosi negli ultimi giorni sul futuro del governo Draghi. Cottarelli “premier incaricato per un giorno” dopo il voto 2018, ma ancora “riserva Fmi”  molto attiva presso l’Osservatorio sui conti pubblici italiani della Cattolica. Senatore a vita, ex premier tecnico, ex commissario all’Antitrust Ue, ex rettore della Bocconi Mario Monti: peraltro abbastanza appartato dopo l’insuccesso di Scelta Civica alle elezioni 2013. Messina è da un decennio l’affidabile Ceo di Intesa Sanpaolo, “banca di sistema” in Italia; capace – per certi versi – di supplire la stessa Bankitalia all’epoca dei salvataggi del 2015 e soprattutto del 2017 (quando il gruppo si fece carico direttamente dei dissesti di Popolare di Vicenza e Veneto Banca).  Un punto di riferimento  – il gruppo, il top manager, le grandi Fondazioni azioniste – più stabile nel sistema bancario nazionale di quanto siano stati ultimamente il polo Mediobanca-Generali o anche UniCredit.



Tre figure in ottimi rapporti con Draghi, anche se non tre “draghiani”. Tutti egualmente preoccupati di come verrà governato il sistema-Paese nei prossimi mesi, ormai nei nove mesi finali della legislatura. Ma con punti di vista nettamente contrapposti su un punto: Cottarelli si è detto favorevole ad elezioni anticipate in autunno, Monti invece ha respinto l’ipotesi e Messina gli ha fatto eco vigorosa.



La diagnosi è in fondo comune: l’Azienda-Italia non può permettersi mesi di stasi e di incertezza, sul filo della stagflazione e quando ormai una lunga era di “denaro facile” volge al termine (sia esso quello messo a disposizione da politiche monetarie ultra-accomodanti e dall’“offerta di debito fiscale” come ad esempio il Recovery Fund europeo post-Covid). Nessuno dei tre dubita che Draghi abbia in tasca le ricette giuste e l’autorevolezza istituzionale per portarle avanti: anzitutto con una legge di bilancio strategica e non di ordinaria amministrazione (o peggio) sull’anno elettorale 2023. Tutti condividono d’altronde il timore che le forze politiche – in campagna elettorale – leghino le mani al premier in modo irreparabile.



Ed è a questo bivio che Cottarelli sceglie il realismo dei tempi tagliati: naturalmente non si sa quanto interpretando in modo autentico i segnali di stanchezza lanciati da Draghi nelle ultime settimane, forse anche in attesa di sviluppi negli organigrammi internazionali. Sarebbe comunque meglio per tutti se il voto riassegnasse senza ritardi poteri e responsabilità (nel sottinteso: a un governo politico, senza più l’ex presidente della Bce nella stanza dei bottoni).

Auspicando che Draghi rimanga “in servizio effettivo” fino all’ultimo giorno, Monti e Messina paiono guardare a uno scenario indubbiamente diverso: quello in cui l’ultimo scorcio di legislatura consentirebbe al “vero Draghi” di esprimersi e affermare il suo riformismo economico-sociale contro il partitismo. Neppure troppo nell’implicito, una sorta di Draghi 2 viene proiettato oltre la scadenza elettorale, depotenziando in parte l’esito della consultazione democratica e allungando la fase istituzionale (in parallelo con la rielezione di Sergio Mattarella al Quirinale).

Più nel merito, sembra di leggervi in filigrana la preoccupazione di settori dell’establishment che il voto premi il centrodestra (in particolare Lega e FdI) e condanni il centrosinistra a uscire davvero dalle stanze del potere, pressoché sempre “occupate” dal 2011 in poi. È una lettura politica dell’Italia “in guerra” che sembra riprendere fra l’altro il discorso interrotto una decina d’anni fa dal tentativo di Monti di riconvertirsi da premier istituzionale a leader politico. Pare tuttavia pochissimo probabile che Draghi vi si voglia cimentare. Mentre non è detto che altri protagonisti della stagione montiana non vogliano riprovarci.

È giusto del fine settimana il battesimo di Demos, una formazione politica germinata dalla Comunità di Sant’Egidio. Il fondatore della quale – Andrea Riccardi – è stato ministro con Monti e presidente di Scelta Civica durante la campagna 2013. E il nome di Riccardi è circolato, lo scorso gennaio, come candidato “super partes” per la Presidenza della Repubblica.

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