Solo una visione provinciale ha potuto attribuire all’assenza del presidente francese Emmanuel Macron al G7 virtuale da Kiev l’intento di uno “sgarbo” personale alla premier italiana Giorgia Meloni, che l’ha presieduto. Certamente il ruolo recitato da Meloni nell’evento-boa del terzo anno di guerra russo-ucraina non è stato di ordinaria amministrazione, per quanto legato alla presidenza italiana del G7. Ma la guida reale del principale organismo geopolitico dell’Occidente resta saldamente nelle mani degli Usa: senza il cui assenso – anzi: senza il cui impulso – la trasferta a Kiev della premier italiana non avrebbe potuto aver luogo. È avvenuto così che sia toccato a Meloni agitare sul campo di battaglia il vessillo della “resistenza occidentale” contro la Russia putiniana a fianco dell’Ucraina. A ribadire anzitutto la totale coesione fra Europa e Stati Uniti nel rinato perimetro Nato.



La situazione non poteva essere gradita all’Eliseo, per molte ragioni: anzitutto perché la presidenza Macron resta in forte crisi – forse irreversibile – in casa; e può mantenere o ritrovare smalto solo come primario player geopolitico. Se la premier italiana si è vista nuovamente investita del ruolo di partner oggi più affidabile di Washington in Europa, Macron si prepara verosimilmente a giocare a tutto campo la classica carta dell’autonomia francese. E questa non solo ha già avuto modo di manifestarsi sul fronte ucraino (con le lunghe telefonate Macron-Putin nei primi mesi di guerra) ma è storicamente sintetizzata dallo sviluppo delle tecnologie nucleari, sia in campo civile che militare.



Parigi sta premendo sulla Ue perché dia via libera al rilancio del nucleare (“pulito”) come fonte energetica in un continente che sta già facendo duramente i conti con le sanzioni alla Russia su gas e petrolio (mentre la transizione verde presenta ancora incognite e tempi lunghi). È invece delle ultime settimane la svolta europea sul riarmo: sulla costruzione di un sistema di difesa continentale, inevitabilmente proiettato verso la dotazione di strumenti di deterrenza nucleare. Dopo Brexit, la Francia è l’unico fra i 27 Paesi dell’Unione a disporre di una “force de frappe” nucleare. Lo stesso Mark Rutte – segretario generale “in pectore” della Nato, liberaldemocratico come Macron – non potrà che ripartire da Parigi per coinvolgere la Ue nella “transizione militare” dentro un Patto Atlantico rilanciato e allargato al Pacifico.



È su queste premesse che Macron si accinge a sedersi al tavolo del ridisegno della governance Ue, fra poco più di 100 giorni, dopo il voto per l’europarlamento. Dalle urne i liberaldemocratici (di cui Macron è il vero “patron” europeo) sono attesi a un risultato non negativo, come invece è pronosticato per i socialdemocratici (che hanno il loro leader nel cancelliere tedesco Olaf Scholz, oggi alla guida del “malato d’Europa”).  Non è affatto inverosimile che sia il presidente francese ad emergere come ago della bilancia nel cantiere della “grande coalizione” che governerà la Ue nei prossimi cinque anni: prevedibilmente ancora con la popolare tedesca Ursula von der Leyen alla guida della commissione di Bruxelles. E che ne faccia parte o no Ecr (il partito della destra conservatrice europea, che ha in Meloni la propria leader virtuale) dipenderà dall’esito del voto, ma anche dalle scelte di Macron.

È quindi comprensibile che il presidente francese voglia segnalare fin d’ora la sua ambizione di succedere ad Angela Merkel come vero “presidente d’Europa”, aspirando a giocare da interlocutore geopolitico Ue di tutte le altre grandi forze. A cominciare dagli Usa (chiunque siederà alla Casa Bianca dal 2025 in poi) fino alla Cina, dove lo stesso Macron ha già tentato un protagonismo autonomo sul futuro di Taiwan. Sullo stesso scacchiere mediorientale, Macron ha ultimamente assunto una linea netta contro il bellicismo del governo israeliano a Gaza: più marcata di quella della Ue (dove certamente Parigi può muoversi verso il Medio Oriente con una libertà negata a Berlino).

Se quello di Kiev è stato uno “sgarbo” – ma la politica internazionale è fatta in gran parte di “sgarbi” – è stato verso il G7, di cui Meloni regge la presidenza semestrale. Ma è stato più propriamente un forte avviso geo-politico a 360 gradi: non da ultimo al presidente ucraino.

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