In molte occasioni Giorgia Meloni si è fatta apprezzare per la scelta dei toni e dei contenuti delle sue comunicazioni pubbliche. Anche in quello che ha detto nella recente conferenza stampa con il presidente ucraino Zelensky ci sono aspetti condivisibili.  Ma il paragone tra la resistenza ucraina di oggi e il risorgimento italiano di ieri è veramente fuori luogo. La cacciata dello straniero e la riunificazione territoriale della penisola è stata ovviamente un processo positivo, anche se sappiamo che nella storia quando si fa fuori l’influenza di un potere straniero è per sostituirlo con un altro.



Ma a parte questo, l’aspetto rilevante è che fin dai primi anni, quando ancora l’unificazione non era completa, essa ha tradito i suoi annunciati ideali, diventando di fatto una guerra di conquista. Gli storici hanno sottolineato l’impatto tragico dell’arrivo dei piemontesi nel Sud Italia. Sappiamo le conseguenze economiche e sociali provocate nel Meridione dalla legislazione liberale di Torino prima e di Roma poi. E la feroce repressione dei ribelli, briganti e non, con migliaia di morti. La letteratura a proposito è vastissima. Ultimo in ordine di tempo il libro di Pino Aprile Il Nuovo Terroni. Se anche un decimo delle cose che l’autore scrive fosse vero, documenterebbe ulteriormente il gigantesco esproprio culturale ed economico ai danni del Meridione.



E non c’è solo il Sud. La fine del potere temporale del Papa era ormai storicamente matura e forse per certi aspetti auspicabile, ma le modalità con cui è stata gestita hanno privato l’Italia del contributo positivo dei cattolici per molti anni. L’aspetto curioso è che se questo ritirarsi dalla gestione del potere è stato un danno per la società, forse è stato un bene per la consapevolezza dei cattolici del proprio ruolo sociale ed anche politico. Lo dimostra la bellissima vitalità del cattolicesimo di fine Ottocento, a livello personale e sociale.

E poi c’è un altro aspetto. Abbiamo davvero bisogno oggi in Italia della retorica della patria? La nostra storia non è quella della Polonia o dell’Irlanda e nemmeno dell’Ucraina. Da Ciampi in poi le istituzioni hanno fatto molti sforzi per provare a coltivare il sentimento nazionale negli italiani, ma con poco successo. L’inno di Mameli è lo scotto da pagare prima che inizi quello che interessa, la partita. Un po’ come quando da ragazzi sentivamo in tv la sigla dell’Eurovisione. Sono emozioni passeggere. Davvero ridicolo pensare che possano essere questi i rimedi al deserto di ideali del nostro tempo. Ci vuole qualcosa di evidentemente bello, vero e inaspettato. Usando le parole di Montale, come un croco che, pur piccolo – aggiungo io – risplende in mezzo a un polveroso prato.



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