Non sempre i ritardi vengono per nuocere, e anche quello – causa otoliti – con cui è stata tenuta la tradizionale conferenza stampa di fine/inizio anno ha giovato a Giorgia Meloni. Nelle oltre tre ore di confronto con i cronisti parlamentari hanno avuto più eco il caso Ferragni o la pistolettata esplosa dal collega di partito Emanuele Pozzolo piuttosto che – ad esempio – le polemiche sul no alla ratifica del MES e il Patto di stabilità. A fine dicembre sarebbe stata tutta un’altra musica. In questo diverso contesto, la presidente del Consiglio è riuscita a far passare alcuni messaggi chiari, pur lasciando tanti fronti aperti. Tra questi, uno per tutti è quello del rapporto con Bruxelles dopo la lettera del Quirinale che invita a rivedere la norma sulle concessioni degli ambulanti e dei balneari. “L’appello del presidente Mattarella non resterà inascoltato”, ha garantito la Meloni senza però specificare come si muoverà.



L’immagine che la premier voleva comunicare è quella di una maggioranza unita, tanto più che il prossimo appuntamento elettorale europeo non prevede coalizioni ma ogni partito farà la propria corsa. La Meloni è stata molto attenta a compattare gli alleati e a non mostrare cedimenti interni. Inflessibile con lo sparatore che verrà sospeso da Fratelli d’Italia e “rigida” con chi si dimostrerà “irresponsabile”; schierata con Matteo Salvini (nell’inchiesta sugli appalti Anas che coinvolge il figlio di Verdini “non è chiamato in causa e ritengo che non debba intervenire in Aula su questa materia”); possibilista sulla candidatura alle elezioni di giugno: “Non ho ancora deciso, ma è una scelta che è corretto fare insieme con gli altri leader. Non sono preoccupata per gli equilibri della maggioranza”. La premier stata anche abile, cogliendo l’assist di un cronista, a dirsi disponibile a un faccia a faccia preelettorale in tv con Elly Schlein in quanto “leader dell’opposizione”: in questo modo si è scelta l’avversario (più debole rispetto a Conte o Renzi) togliendole pure un possibile argomento di sfida.



Anche sulle riforme la Meloni non ha lasciato margini a distinguo interni. Ha difeso con convinzione il premierato che “non tocca i poteri del capo dello Stato” aggiungendo di non temere l’eventuale referendum: a differenza di quanto disse Renzi nel 2016, “non sarà su di me ma sul futuro della nazione”. Ha pure eretto un muro attorno all’autonomia differenziata, che non sarà una guerra tra regioni ma un confronto con lo Stato per premiare con maggiori poteri chi avrà meglio amministrato. Il pacchetto di riforme appare dunque conciliabile con tutte le posizioni dei partiti e ha l’approvazione dell’intero governo.



La Meloni si è detta poi “basita” dalle considerazioni di Giuliano Amato sui rischi di “deriva autoritaria” visto che questo governo entro fine anno dovrà nominare quattro giudici costituzionali. “Credo sia ‘una deriva autoritaria’ pensare che se la destra vince le elezioni non abbia le stesse prerogative della sinistra”. E ha aggiunto: “Il mondo in cui la sinistra ha più diritti degli altri è finito. La democrazia per cui la sinistra fa quello che vuole e gli altri non hanno diritti non è il mio mondo e farò di tutto per combatterlo”. Replica molto dura, accompagnata da critiche pesanti anche al giudice Marcello Degni e al commissario Ue Paolo Gentiloni, visto che fu il governo da lui guidato a nominare Degni consigliere della Corte dei conti.

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