Hamas e Houthi sono una grave minaccia. Lo sa bene anche l’Egitto, che sul confine ad est si trova a dover spendere capitali, vicino al valico di Rafah, per evitare di vedersi trasformare il Sinai in un maxi campo profughi in fuga da Gaza; e che sui confini tra Port Said e Suez assiste inerme al traffico navale almeno dimezzato sul canale, disertato dai convogli timorati dagli attacchi nel Mar Rosso, un business che lo scorso anno aveva fruttato circa 10 miliardi di dollari, la prima sorgente di valuta pregiata per il Paese.
Una situazione pericolosa, per un Egitto sull’orlo del crack, dove la sterlina locale ha ceduto il 50% del suo valore in due anni sul dollaro, con i tassi d’interesse rialzati al 27,5%, in ossequio ai diktat del Fondo monetario internazionale, in cambio di un prestito miliardario. Ma il gigante nordafricano, uno Stato di riferimento per l’Europa e l’Italia in particolare (siamo il secondo mercato di interscambio, che vale circa 6 miliardi, e settimo in forniture), non si può lasciare al default, mettendo a rischio tutta l’economia regionale e, non ultimo, esponendolo ancora di più ai traffici umani, con i flussi (specie dal Sudan) in evidente aumento.
Su queste quinte si dispiega quello che la premier Giorgia Meloni ha descritto come un “modello Caivano”, una strategia ispirata al Piano Mattei, di fatto un partenariato tra Italia e Stati africani che riguarda soprattutto piani energetici e sociali, una postura non predatoria (così come fu varata dal presidente ENI morto nel ’62) che porti ad una stabilità regionale capace di frenare anche i flussi migratori.
Il modello Caivano, però (varato per vincere la criminalità organizzata nel napoletano), è forse riduttivo: ed infatti Meloni ha anche parlato di “una grande sfida strategica italiana”. Ed europea, visto che anche in questa missione al Cairo Meloni ieri era accompagnata dal belga Alexander De Croo, presidente UE di turno, dal primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis, dal presidente cipriota Nicos Christodoulidis, dal cancelliere austriaco Karl Nehammer, e dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, tutti nello sfarzoso palazzo di Abdel Fattah al-Sisi per la firma di un memorandum su politiche agricole, di formazione, di cooperazione nei settori della salute, del sostegno alle Pmi e degli investimenti. E sull’energia: non si può dimenticare che l’Egitto è il proprietario di Zohr, giacimento offshore a 200 chilometri a nord di Port Said, “la più grande scoperta di gas naturale nel Mediterraneo, individuata e messa in produzione a tempo di record mettendo a sistema tecnologia, competenze e capacità di stringere solidi accordi con il Paese produttore e con aziende partner”, dichiara l’ENI, che proprio per questo considera l’Egitto un Paese strategico. Anche in soddisfazione del malcelato progetto di promuovere l’Italia ad hub energetico europeo.
Il memorandum egiziano, comunque, oltre alle dichiarazioni d’intenti, prevede anche una dote sostanziosa, da 5 a 7 miliardi tra il 2024 e il 2027 tra prestiti e sovvenzioni, che Italia e Europa mettono a bilancio anche alla voce protezione confini sud, seguendo il principio molto meloniano che per frenare i flussi migratori occorra lavorare sui Paesi di origine e di transito. Ma resta il rischio fondato che i denari finiscano nei mega-progetti di modernizzazione del Paese varati da al-Sisi, mentre l’inflazione continuerà a correre, il potere d’acquisto degli egiziani continuerà a calare, e la povertà ad aumentare. Una miscela comunque esplosiva, dove s’innesta anche la politica russa: lo scorso dicembre Putin era con al-Sisi alla posa della prima pietra del quarto reattore di El Dabaa, la prima centrale nucleare egiziana e il primo grande progetto in Africa per Rosatom, la società statale russa per l’energia atomica.
Mentre i risultati dei primi passi del neo-Piano Mattei in Tunisia (siglato lo scorso luglio) sono ancora incerti, la seconda tappa è arrivata dunque in Egitto, ma in agenda c’è già l’estensione dello stesso modello in altri Stati, come Algeria, Repubblica del Congo, Costa d’Avorio, Etiopia, Kenya, Marocco, Mozambico. Al momento non figura la Libia, dove l’Italia ha incerte strategie diplomatiche ma forti interessi petroliferi, e dove servirà ben altro rispetto alle motovedette regalate alla loro Guardia costiera.
In tutto ciò, e pur comprendendo bene le ragioni della realpolitik, molti non vedono perché accanto alle richieste per una stabilità economica e sociale non vi potessero essere anche quelle ad al-Sisi per un maggiore rispetto per i diritti civili. E proprio l’Italia dovrebbe dimostrarsi il Paese più sensibile in materia: il 3 febbraio 2016 quattro agenti egiziani torturarono e ammazzarono brutalmente il giovane Giulio Regeni. Otto anni e mezzo dopo, dopo silenzi e goffi depistaggi, lo scorso dicembre si è aperto il processo a loro carico in Corte d’Assise, a Roma, ma gli agenti erano assenti: al-Sisi non aveva ritenuto opportuno nemmeno avvisarli dell’udienza.
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