Appena costituito e ottenuta la fiducia dal Parlamento (speriamo che queste operazioni non avvengano il 28 ottobre nel centenario della Marcia su Roma), il Governo di Giorgia Meloni dovrà affrontare con urgenza la Legge di bilancio. La leader di FdI ha vinto almeno tre competizioni: la prima e la più importante per il governo del Paese; la seconda all’interno della sua coalizione, nei confronti di Matteo Salvini – sonoramente sconfitto – che non le aveva mai riconosciuto la supremazia e le aveva creato non pochi problemi durante la campagna elettorale fino a criticarla per la sua prudenza a proposito dello scostamento di bilancio; nella terza ha sconfitto Enrico Letta. All’inizio di quest’avventura Pd e FdI procedano appaiati, nei sondaggi, tanto che il piano B di Letta si limitava a vincere la gara per il primo partito. L’esito della gara è sotto gli occhi di tutti.
Dalle urne di questa elezione politica è scaturito anche un non-perdente. Sarebbe troppo mettere nell’elenco dei vincitori Giuseppe Conte e il M5S, quando questa forza politica ha perso più della metà dei voti ottenuti nel 2018. Ma riuscire a sopravvivere quando al paziente è già stato somministra l’olio santo non è cosa da poco. Soprattutto dopo il flop di Impegno civico di Gigi Di Maio. A questo punto occorrerà spiegare che cosa c’entri questo accostamento tra due partiti che non hanno nulla da spartire. A pensarci bene, tuttavia, c’è una questione che li colloca in posizioni opposte, l’un contro l’altra armato. Conte ha retto la sfida – per di più spostando verso sinistra l’asse della campagna elettorale del Pd che a un certo punto si è messo a rincorrerlo – percorrendo in lungo e in largo il Meridione sbandierando la conquista pentastellata del Reddito di cittadinanza, proseguendo nella linea già usata in occasione dell’uscita dall’Aula per far cadere il Governo Draghi lo scorso 20 luglio, quando “Giuseppi” aveva stigmatizzato le critiche a quella misura degli alleati della maggioranza di unità nazionale avvalendosene per giustificare la presa di distanza dall’esecutivo. A commento del risultato elettorale Conte si è attaccato alla sua bandiera: “Chi tocca il Reddito di cittadinanza troverà in noi un argine insuperabile. Chi pensa di toccarlo dovrà fare i conti con noi”.
A Giorgia Meloni staranno – come si suole dire – fischiando le orecchie (ammesso e non concesso che si preoccupi per le affermazioni di Conte), poiché uno dei punti del suo programma, largamente diffuso durante la campagna elettorale, racconta tutta un’altra storia: “Abolire il Reddito di cittadinanza per introdurre un nuovo strumento che tuteli i soggetti privi di reddito, effettivamente fragili e impossibilitati a lavorare o difficilmente occupabili: disabili, over 60, nuclei familiari con minori a carico. Per chi è in grado di lavorare, percorsi di formazione e potenziamento delle politiche attive del lavoro”.
È sempre più evidente che sul RdC si gioca una partita molto nominalistica. Nel 2018 il M5S aveva voluto cambiare un istituto che era entrato in vigore da pochi mesi e che, alla prova di quanto è accaduto successivamente, avrebbe meglio affrontato la lotta alla povertà. Il riferimento è al Reddito di inclusione che evitava l’errore cruciale compiuto con il RdC: la pretesa di afferrare tre piccioni con una sola fava. Il RdC era stato concepito come uno strumento per combattere la povertà e nello stesso tempo sarebbe dovuto funzionare come motore di una politica attiva orientata – ecco la terza illusione – a creare lavoro stabile. In realtà l’esperienza ha dimostrato non solo che i Centri per l’impiego non erano in grado, nonostante i navigator, di reperire posti di lavoro, ma che il problema vero consisteva nella mancata occupabilità – per i limiti di formazione di base, di requisiti minimamente indispensabili per fare parte di una comunità organizzata – dei beneficiari. L’idea quindi di lavorare sull’occupabilità attraverso la formazione è corretta e corrisponde a tutte le analisi compiute su questa esperienza a partire dal contributo dell’Anna, l’associazione dei navigator, e dalla relazione della Commissione Saraceno.
Ma il peggio di sé FdI lo mette in campo in materia di pensioni, dove, sia pure in termini generici, vengono recepite tutte le proposte circolate in questi anni. Pur tuttavia c’è il buon gusto di non tirare in ballo a male parole la riforma Fornero. Vediamo il testo.
“Flessibilità in uscita dal mondo del lavoro e accesso facilitato alla pensione, favorendo al contempo il ricambio generazionale. Stop all’adeguamento automatico dell’età pensionabile all’aspettativa di vita. Rinnovo della misura ‘Opzione donna’. Un sistema pensionistico che garantisca anche le giovani generazioni e chi percepirà l’assegno solo in base al regime contributivo. Ricalcolo, oltre un’elevata soglia, delle ‘pensioni d’oro’ che non corrispondono a contributi effettivamente versati. Adeguamento delle pensioni minime e sociali, per restituire dignità alle persone che vivono difficoltà quotidiane e rischiano di finire ai margini della società. Rivalutazione dei trattamenti pensionistici erogati per fare fronte alla svalutazione monetaria”.
Come si può vedere si ribadisce il mito dell’anticipo della pensione per il ricambio generazionale (il principale fallimento di Quota 100); viene abrogato la maggiore garanzia per l’equilibrio del sistema, quell’adeguamento automatico all’incremento della aspettativa di vita (un provvedimento assunto dall’ultimo governo Berlusconi); si porta a spasso (Landini docet) la pensione di garanzia per i giovani; si parla di una rivalutazione rispetto alla svalutazione monetaria quando esiste già un congruo adeguamento al costo della vita, una misura in vigore solo per le pensioni. Infine, non poteva mancare un giro di vite sulle c.d. pensioni d’oro. In fondo ci vorrà pure un residuo di populismo. Almeno per farsi riconoscere.
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