Tutto chiede salvezza (Mondadori), il nuovo romanzo di Daniele Mencarelli, è appena entrato tra i dodici finalisti del Premio Strega. Se nella Casa degli sguardi l’autore aveva raccontato il suo percorso di redenzione dalle spire dell’alcol, in questo intenso memoir affronta uno dei momenti più drammatici della sua vita: una settimana di trattamento sanitario obbligatorio in psichiatria nel giugno del 1994. Nei sette giorni di ricovero, il protagonista imparerà a conoscere a fondo i suoi compagni, segnati da profondissime lacerazioni interiori, ma scoprirà anche la loro intensa e inaspettata umanità. Il ricordo di quei giorni lo accompagnerà per il resto dell’esistenza: “Dall’alto, dalla punta estrema dell’universo, passando per il cranio, e giù fino ai talloni, alla velocità della luce, e oltre, attraverso ogni atomo di materia. Tutto mi chiede salvezza. Per i vivi e i morti, salvezza…”.



Spesso si scrive per qualcosa che manca. Qual è la tua nostalgia?

Nel nuovo romanzo lo faccio dire a Mario, il maestro elementare messo in congedo perché ha tentato di uccidere moglie e figlia. La mia nostalgia è verso un’unità che sento scorrermi dentro, tutta la bellezza del creato non fa altro che ricordarmela. Noi eravamo Uno. E vivevamo nel mondo senza traccia di tempo e peccato. Ho nostalgia del paradiso. Perché questo era il paradiso.



Dopo anni di consuetudine con la poesia, sei passato alla prosa. Perché?

Il passaggio è dovuto a un debito di riconoscenza. Nei miei due romanzi sono tornato a scrivere attorno a incontri che hanno cresciuto il mio sguardo, incontri come rivelazione dell’altro, del mondo, del Significato. Nel primo romanzo i bambini del Bambino Gesù, i miei compagni di lavoro, la suora, in questo secondo i miei compagni di stanza, gli infermieri e i medici. Su queste figure imprescindibili avevo investito con la mia prima lingua, la poesia, per questo ritorno mi è sembrato naturale farlo con la narrativa, sfidandomi su un terreno nuovo ma che sento mio in maniera carnale. Anche nella mia poesia, in fondo, l’elemento narrativo è centrale, anzi, l’elemento teatrale. La mia scrittura vive di scene che si animano, e nel momento in cui lo fanno rivelano quello che l’uomo non potrebbe mai sapere senza di esse, senza questo magnifico teatro della realtà. La differenza tra poesia e narrativa la sento nella tensione della parola, nella pronuncia stessa, la solennità. La sfida è questa: mantenere in narrativa la medesima tensione che c’è nella poesia.



Hai una memoria ferocemente meticolosa, come hai fatto a ricordare ogni dettaglio di quell’estate del 1994?

Ho vissuto tra i 17 e i 27 anni alcune vicende particolarmente intense, che sarebbero rimaste nella memoria di tutti, almeno credo. Nella meticolosità di cui parli, però, c’è anche invenzione, c’è anche retorica, c’è il lavoro della scrittura, che ricompone mettendo assieme frammenti che magari non appartengono all’esperienza diretta, ma che provengono comunque dal bacino biografico dell’autore. Un libro è sempre altro rispetto al dato storico, io amo definirlo un fatto linguistico, in quanto tale deve obbedire a regole date, altrimenti si corre il rischio di non comporre un buon libro, un buon romanzo. Si deve essere fedeli alla parola per esserlo alla realtà.

Le tue abitudini di scrittura?

Sono un soldato, obbedisco a regole che hanno la consistenza dell’acciaio. Ho il terrore di rimanere imprigionato nella scrittura, quindi strutturo il mio lavoro con meticolosità assoluta, lo disciplino seguendo un ordine preciso e a quello mi attengo scrupolosamente. Non credo nell’ispirazione, o meglio, chi è ispirato lo è sempre, o quasi. Un tic, forse nevrosi, è che mi do anche il giorno in cui inizierò a scrivere, una specie di “inizio lavori”. Altro tic è avere tutte le volte un quaderno e una penna mai usati prima.

La casa degli sguardi è una potente storia di redenzione. In letteratura, quali storie simili ti hanno formato? I tuoi maestri?

Il mio corredo è senz’altro poetico, la narrativa non sempre mi cattura, per farlo deve essere scabra, violenta. Tra i poeti attingo al nostro novecento, invece dei soliti nomi te ne faccio altri, di poeti dell’ultima parte del secolo che dovrebbero essere già studiati a scuola: Giovanna Sicari. Remo Pagnanelli. Beppe Salvia. Rispetto alle storie, ho adorato la grande letteratura degli irregolari, i viaggiatori, da Jack London a Joseph Conrad. Un discorso a parte meritano i russi. Due nomi su tutti: Achmatova e Majakovskij. Quest’ultimo ha scritto un capolavoro che consiglio a tutti, un poemetto, Il flauto di vertebre.

La cosa più dura di quella settimana in psichiatria?

Senz’altro l’incontro con Valentina [nel romanzo si racconta di uno scherzo “da ragazzi” che invece ebbe conseguenze tragiche per questa giovane vittima, nda] con la scoperta drammatica che le nostre azioni procurano dolore agli altri. Spesso neanche veniamo a sapere quale e quanto male abbiamo inferto agli altri. Per il protagonista, un ragazzo di vent’anni, fare questa scoperta sarà semplicemente insopportabile.

L’esperienza più forte dopo il tuo lungo tour per La casa degli sguardi?

Vedere, toccare con mano quanto le persone abbiano bisogno dei temi del sempre, quelli che riguardano e interrogano senza sosta tutti: la morte, il dolore, Dio. Non bisogna neanche andare troppo in profondità, quando ti mostri disponibile a confrontarti su questi temi, quando ne scrivi, vedi i volti accendersi di interesse. Ma mi porto anche tante storie private, confidenze, atti di dolore e amore di tanti provati dalla vita. In tanti mi sono entrati nel sangue.

Lavori nel campo della sceneggiatura. Se dovessi fare un trailer della tua vita, quali sono stati i tasselli decisivi?

Senz’altro i fatti che racconto nei due romanzi editi, quindi il Bambino Gesù, andando più indietro nel tempo il Tso di Tutto chiede salvezza, finirei la parte legata alla mia giovinezza con la terza vicenda fondamentale, cioè il terzo libro che devo ancora scrivere. Un viaggio a piedi che ho fatto a 17 anni, un ritorno a casa dalla Riviera romagnola ai Castelli romani. Per quanto riguarda la fase adulta non posso prescindere dalla nascita dei miei figli, anche di quelli non nati.

I tuoi classici preferiti?

Prima dicevo che la mia scrittura ha una matrice dominante, quella legata al teatro. C’è un altro elemento assolutamente fondamentale: il grande tema del viaggio. Ogni storia è un viaggio dove l’identità del protagonista è messa alla prova dalle tappe che vivrà. Viaggio come luogo di scoperta di sé e del mondo. Omero è il maestro, dopo di lui non si è inventato più nulla. L’Iliade e l’Odissea rimangono due viaggi esemplari e immortali. Poi Catullo, la poesia innamorata, carnale.

(Alessandro Rivali)