La riduzione dell’orario a parità di salario, con la previsione di convertire quota parte delle ore in percorsi formativi, contiene al suo interno una serie di questioni che brevemente e non esaustivamente cercheremo di analizzare. È indubbio comunque che tale soluzione può risultare vincente solo se avremo un approccio sistemico, dove tutti fanno la loro parte seriamente e velocemente. Lo sforzo organizzativo, non semplicemente economico, che si richiede alle imprese dovrà essere accompagnato da un pari impegno da parte della Pubblica amministrazione e delle organizzazioni sindacali.
Cerchiamo comunque di contestualizzare il problema. Penso siamo tutti d’accordo nell’affermare che oggi non è il caso di ridurre il reddito dei lavoratori che, insieme alle famiglie, stanno già facendo sforzi enormi, visto che il Paese ancora mantiene un equilibrio sociale. Non siamo in presenza del vecchio slogan “lavorare meno lavorare tutti”, non solo perché c’è il Covid-19, ma anche perché è cambiato il mondo del lavoro. La riduzione generalizzata del lavoro, stabilita per legge, come ha dimostrato l’esperienza francese, non funziona. Essa in fondo presupponeva che i lavori fossero simili e ripetitivi, che la produzione fosse di massa e la domanda omogenea, costante e sostanzialmente in crescita.
La misura va coordinata con l’esperienza di telelavoro che stiamo massicciamente sperimentando in questi mesi. Chi sta lavorando da casa sicuramente non ha ridotto l’orario. Anzi, spesso lavora molto più intensamente, perché non può andare neanche al bar sotto casa a prendere il caffè, come faceva con il bar vicino all’ufficio o la mensa o la macchinetta del caffè con i colleghi. Ciò quindi presuppone che la riduzione di orario non può/deve essere per tutti i lavori.
Una riduzione di orario generalizzata non si fa dall’oggi al domani, pur in presenza di una riduzione della domanda. C’è bisogno di una rilettura dell’organizzazione del lavoro complessiva. Che tenga conto dei necessari livelli produttivi, della rimodulazione delle presenze, dei carichi di lavoro e della loro ripartizione. Questa rilettura dovrebbe essere colta come un’opportunità da parte delle imprese di ogni settore e dimensione, per fare un passo avanti, un salto di qualità.
La qualità deve essere rappresentata dalla formazione. Quest’ultima non è solo e da sempre un cavallo di battaglia del sindacato, essa rappresenta ormai (ma la Cisl lo dice da sempre) una delle condizioni sine qua non per garantire occupabilità alla persona e forza lavoro migliore alle imprese. La vera e positiva novità del ddl in cantiere è proprio questa. La previsione di un Fondo che invece di erogare semplice integrazione salariale paga la formazione.
Formazione di qualità e rispondente alle necessità che si presenteranno alle imprese man mano che l’economia riprende è quindi la questione centrale. Badate bene, qui la formazione si farebbe in continuità di contratto, quindi non è la formazione che viene vista e vissuta come una sorta di limbo durante la disoccupazione o prima del licenziamento definitivo. In questi anni di fatto non si è mai riusciti a integrare formazione e occupazione in maniera generalizzata, basti guardare alle statistiche che ci dicono che i lavoratori italiani fruiscono di formazione in misura nettamente inferiore rispetto ai loro colleghi europei.
Naturalmente abbiamo tutto per fare formazione di qualità: competenze, risorse umane, strumentazione tecnica e organizzativa, esperienze/esempi di ottimo livello. È indubbio tuttavia che senza fare l’elenco delle cose che non sono andate bene e senza aprire un triste capitolo sulle politiche attive del lavoro, c’è molto da migliorare per rendere sistemico l’approccio e garantire buoni risultati in tutto il Paese.
Qualità, qualità, qualità, verrebbe semplicemente da dire nel nostro Paese, dove spesso non c’è un problema di risorse, bensì una questione di qualità della spesa. La qualità dei comportamenti e dell’operare è richiesta a tutti i singoli soggetti e alle organizzazioni nel loro complesso. In tal senso il Patto sociale di cui si parla potrebbe rappresentare le fondamenta di un progetto Paese in cui inserire anche queste azioni.
In sintesi, ridurre l’orario a parità di salario integrando le ore con attività formative è una delle soluzioni auspicabili guardando al futuro. La sua realizzazione è come ovvio complessa, che non vuol dire complicata, ma solo che intreccia molte questioni nello stesso tempo. La capacità organizzativa del nostro Paese va però misurata proprio su questioni che hanno prospettive di lungo periodo, come quella di dotare delle necessarie competenze la forza lavoro.