Il “Decreto Maggio” del Governo potrebbe contenere una proposta di riduzione dell’orario di lavoro a parità di stipendio. Un articolo del Corriere Economia pare sostenere apertamente il provvedimento: “C’è voluto il coronavirus perché anche l’Italia decidesse di affrontare il tema della riduzione delle ore di lavoro, argomento che molti Paesi europei hanno messo nella loro agenda governativa e sindacale da diversi anni”.



I dettagli della norma, chi sarebbero i suoi beneficiari, ancora non sono chiari. La Ministra Catalfo ci starebbe lavorando, ma una sua approvazione in Consiglio dei Ministri in settimana è improbabile. Si parla di una settimana lavorativa standard da meno di 40 ore, preservando lo stipendio odierno; “parte delle ore ridotte” potrebbe essere convertita in percorsi formativi (“magari digitali”). Ci saranno un’estensione della Cig e nuovi bonus (stavolta per autonomi e lavoratori stagionali del turismo, fino a 1.000 euro; e un “SuperEcobonus” per l’edilizia). Ogni volta che si legge “bonus”, ci si figura un espediente fuori dal tempo, una tantum e distribuito a pioggia, certo umanamente comprensibile in un’emergenza, ma non risolutivo, senza pretese di efficacia, né di vera creazione di valore per il futuro: di fatto, un “tampone” (ammesso che il termine si possa ancora usare senza ambiguità).



La task force del ministero dell’Innovazione (un’altra?) supporta l’idea come ottima misura per ridurre gli assembramenti in ufficio, e, forse unicum nella storia della (Terza) Repubblica, “la nuova ipotesi piace ai sindacati”.

Ma l’osservazione porta forse a considerazioni diverse dall’idillio – e, come ricordava l’Economist di questa settimana, citando David Hume, uno dei padri di empirismo, scetticismo e naturalismo: “Il Saggio proporziona il proprio credo all’evidenza”.

Noi vediamo questi dati (approssimativi, ma e verosimili corretti come indicazione):



1) il Pil dell’Italia calerà di più del 10% (vs. media Ue al 7,7%), con conseguente crescita della disoccupazione al 15% (Natale Forlani riporta picchi drammatici del 33% nelle famiglie di immigrati non regolari) e del debito pubblico al 159% (vs. 133% un anno fa).

2) Eppure, tra il 20-30% delle offerte di lavoro rimangono non risposte (Unindustria), perché si tratta di mestieri troppo umili per i disoccupati italiani, o per i quali mancano competenze: dai braccianti per raccolti agricoli, che hanno spinto la Ministra Bellanova alla minaccia di dimissioni se non sarà approvata una sanatoria che permetta agli immigrati irregolari di lavorare, fino alla manifattura specialmente se con elevata automazione (Industria 4.0), per la quale mancano competenze. Interessante, ma apparentemente ignorata, la proposta del Governatore Bonaccini – non uno di destra – di impiegare in queste posizioni i soggetti sani che percepiscono il reddito di cittadinanza, in modo da poter avere l’occasione di restituire almeno parte di ciò che si riceve. Sicuramente questa situazione di stallo – molto diversa dall’approccio alla disoccupazione degli americani – è alimentata dalla sazietà vorace da Reddito di Cittadinanza (e la voglia di proseguire su questa strada, con un possibile “Reddito di Quarantena” invocato da più parti – anche dalla “Brigata Franca Rame” con una manifestazione nel Centro di Milano).

3) Questa crisi promette un impatto (negativo) più che doppio rispetto alla crisi finanziaria del 2008; rispetto al dopoguerra, dove la popolazione stava incommensurabilmente peggio di oggi, ma aveva un piano chiaro di ricostruzione, qui l’incertezza nasce dal fatto che, oltre ad avere pochi soldi, la gente normale non sa neppure se, come e quando potrà tornare a lavorare.

4) A questo punto, le Istituzioni offrono, a chi il lavoro ce l’ha, di ridurre la settimana, studiare (nobile proposito; ma cosa? dove?) anziché lavorare, percependo lo stesso stipendio. Non è chiarissimo come questo debba aiutare la crescita, né perché debba permettere a più persone di lavorare, visto che le spese – che siano sostenute dall’impresa o dallo Stato – sono le stesse (anzi di più, ci sono i corsi)

5) E, nel frattempo, con goffa mossa da staterello dittatoriale di altre latitudini e longitudini, le forze dell’ordine puntigliosamente multano (400 euro cadauno) per assembramento i ristoratori che, pacificamente, danno vita al flashmob all’Arco della Pace, per chiedere di poter lavorare (loro).

Fatte le dovute eccezioni (lavori usuranti, salute precaria, ecc.), che vanno assolutamente difese, a noi pare che una proposta del genere ignori dei fattori fondamentali per la nostra civiltà:

– Il lavoro contribuisce alla dignità dell’uomo, e non è innanzitutto un problema da scansare, Ne sono testimonianza non solo la Dottrina sociale della Chiesa, così come l’articolo 1 della Costituzione italiana, ma soprattutto la commozione e la gratitudine sul volto di operai, professionisti e commercianti che hanno finalmente potuto riprendere a lavorare in questa “fase 2”.

– Oggi lavorare implica continuare a studiare e riqualificarsi. Chi non studia, perderà il lavoro sempre più facilmente, perché avrà meno capacità di adattarsi. Non è una grande novità del mondo di Internet e dell’Intelligenza Artificiale: quando vennero inventati i motori a scoppio, cocchieri e guidatori di carri iniziarono ad avere un problema; ma alcuni impararono a guidare.

– Il tempo è un bene prezioso: ma tanti imprenditori di successo, fino allo stesso Jeff Bezos, sostengono che il problema vero non sia l’eterna battaglia (persa in partenza) tra “vita” e “lavoro”, ma avere qualcosa di grande e utile da realizzare, nelle ore di libere così come al lavoro.

Così può accadere che ci si scopra grati di avere un lavoro. Dalla gratitudine può nascere anche una intelligenza, per cui si arrivi anche a lavorare 45 ore alla settimana, anziché 40, non per essere pagati di più, ma per cercare di “produrre” più e meglio di prima. Perché siamo in crisi e abbiamo bisogno di ripartire, come fecero i nostri nonni dopo la Guerra; e poi abbiamo bisogno di studiare, dopo il lavoro, per creare nuove opportunità di ulteriore lavoro, per noi stessi e per gli altri. La natura nostra ci dà l’esigenza di interessarci agli altri, senza minor responsabilità e impegno dei medici e degli infermieri che si sono prodigati con tutto se stessi per prendersi cura dei nostri malati.

C’è chi, con una bella posizione in un grande gruppo finanziario italiano, ha deciso di utilizzare le sue ferie, pur continuando a lavorare a pieno regime, in modo da contribuire, nel suo piccolo, a rendere meno gravosi i costi dell’azienda, ed evitare che la crisi gravi ancor di più sugli anelli deboli della catena. C’è chi si sta mettendo insieme per pensare a start-up; chi per radunare economisti, manager, politici e imprenditori della società civile, che desiderano conoscere e giudicare ciò che sta accadendo, scambiare idee ed esperienze dal campo, identificare necessità e aree di lavoro (digitalizzazione, accesso agli investimenti, potenziamento del capitale umano, gestione delle filiere, internazionalizzazione, ecc.) ed eventualmente elaborare proposte concrete per le istituzioni (si vedrà). Non pagati, fuori dall’orario di lavoro, per una passione.

Ci sono il Rettore del Politecnico di Milano, Ferruccio Resta, e altri professori, entrati nel dibattito pubblico, partendo dalle loro competenze matematico-econometriche, per aiutare a guardare alla complessità del sistema economico e sociale, al di là dei silos settoriali, indicando l’esistenza di una strada per ripartire.

Ci auguriamo, per noi stessi e per i nostri colleghi, questo modo più umano e appassionato di vivere il lavoro, unica alternativa interessante in un momento in cui uno sguardo strettamente analitico sulla realtà non è in grado di sostenere il sacrificio che a ciascuno è richiesto.

Tutto ciò che di positivo abbiamo riscontrato nasce da una gratitudine che diventa impegno intelligente e solidale, nel lavoro e nella società: la Politica dovrà accorgersi che la ripartenza potrà arrivare non alimentando paure, accontentandosi dell’assistenza o giocando al ribasso, ma sostenendo l’iniziativa, la responsabilità e l’impegno dei singoli e della società, perché ognuno torni a investire energia e creatività.

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