Ha fatto molto discutere in questi giorni la proposta del Ministro Giorgetti per il sostegno alla natalità: si tratta dell’intenzione di introdurre qualcosa di simile al quoziente familiare nella fiscalità italiana. È un incentivo che lavora tramite la leva fiscale riducendo la tassazione in base al numero di figli fino ai 21 anni d’età. In Francia esiste già una fiscalità simile: il soggetto fiscale è familiare e non il singolo individuo, al quale vengono aggiunti, per il calcolo, i figli. I figli hanno in questo modo un loro specifico “peso”, che riduce le tasse da pagare: la misura prevede che più sono i figli meno tasse si pagano, lasciando una dose non indifferente di liquidità in mano alla famiglia, aumentandone la capacità di consumo. Traducendo il tutto solo in termini economici, si può dire che “fare figli conviene”. Un giudizio moralmente miope, ma non del tutto sbagliato.



Il contrario è invece trattare single e famiglie allo stesso modo: in questo caso, con reddito identico al netto delle tasse, entrambi avranno le stesse possibilità di spesa, con la differenza che un single non deve pensare ad altri, mentre un lavoratore con figli deve pensare a più componenti. Se aggiungiamo la difficoltà relativa all’occupazione femminile si capisce ancora meglio la portata storica e rivoluzionaria dell’ipotesi.



La misura ipotizzata (ricordiamo che per il momento non si tratta che di idee, non c’è ancora nulla al varo del Consiglio dei Ministri) va esattamente nella prima direzione esposta; certo, va strutturata prima di dare un giudizio complessivo, ma le premesse paiono interessanti.

Non bisogna però fermarsi alla semplice leva fiscale, è evidente che tanti sono gli ostacoli che impediscono alle famiglie di fare figli o ai giovani di formarne una, si pensi all’introduzione nel mercato del lavoro dopo vari step (stage, contratto determinato e poi finalmente contratto indeterminato) e al conseguente problema dei bassi salari, che a loro volta non permettono di acquistare una casa o pagarne l’affitto. Non è quindi solo un problema fiscale, al contrario gli incentivi devono necessariamente coinvolgere anche il mercato del lavoro, comprendendo i problemi legati all’occupazione femminile pre e post figli: in questo senso va forse ripensato lo stesso ministero della Famiglia e della Natalità, potenziandolo, creando un “superministero” che si intersechi con quello dell’Economia, dello Sviluppo economico e del Lavoro.



L’unico giudizio possibile sulla proposta, con i pochi dati che si conoscono, riguarda la direzione intrapresa: è positivo che la proposta parta da un Ministro anziché dalle associazioni. Forse può essere la strada per riaffermare anche culturalmente l’incidenza positiva dei figli sulla famiglia e sulla società: in un’epoca secolarizzata, consumistica e vittima dell’individualismo, porre la questione sulle nascite e sugli incentivi può aiutare ad alzare lo sguardo. Ovviamente non basta, ma è un passo.

È positivo anche il dibattito creatosi: la denatalità è finalmente messa a tema nei media, la domanda è quanto durerà. D’altro canto non mancheranno le polemiche, ma la speranza è che se ne discuta nel merito piuttosto che fermarsi al colore politico del Governo o alle ideologie. Già sono nate le prime diatribe lontane dall’idea in sé, richiamando volutamente l’Ungheria anziché la Francia, ignorando che le politiche familiari di entrambi i Paesi consentono di non avere il nostro problema. Non va poi confusa la lotta alla denatalità con ipotesi di lotta ai migranti: favorire la natalità delle famiglie non vuol dire chiudere i confini. Al contrario, affidarsi ai flussi migratori per combattere l’inverno demografico è una soluzione statisticamente inefficace e poco lungimirante. La questione non è scegliere tra migranti e incentivi alle famiglie residenti, sono due temi che, pur intersecandosi, restano ben distinti, e tali dovrebbero essere anche in un dibattito politico dignitoso.

Ulteriore aspetto degno di nota è che quello che ha in mente il Ministro non è l’ennesimo bonus quanto una proposta molto più strutturata con un respiro più ampio dell’attuale legislatura: esattamente quello di cui c’è bisogno.

È giunto il momento non solo che questa crisi sia finalmente affrontata (è forse l’ultima chiamata?), ma che ci si renda conto che non fare figli è un problema nazionale che non ha colore politico e i cui risvolti si vedono e vedranno sempre più nella società e nell’economia italiana.

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