Stabile. Un aggettivo che talvolta viene sottovalutato e sottostimato nel suo essenziale significato. «Non soggetto a oscillazioni o a spostamenti, ben fermo, saldo. Solido, resistente, che offre un’assoluta sicurezza». Questa è una tra le tante definizioni che si possono trovare in un qualsiasi dizionario ormai in disuso tra molti. Preso atto di questo cosiddetto immutato stato, l'”essere stabile” può anche essere interpretato come un momento di inerzia riconducibile a una vera e propria “distonia” nel mondo degli affari. Infatti, se contestualizzato a un mercato e alle sue molteplici negoziazioni, assistere a un prezzo stabile potrebbe equivalere a un effettivo equilibrio (perfetto) tra la domanda e l’offerta: il compratore giudica congruo il prezzo del venditore e pertanto si rende disponibile allo scambio.



In taluni scenari, questa ipotesi potrebbe rappresentare un sinonimo di positività rispetto alla casistica che, invece, vede prevalere la forza di coloro che vogliono liberarsi di un bene a prezzi sempre più bassi rispetto agli scambi effettuati qualche istante prima. Pertanto: questo “invariato” è bene. Altra situazione, poco diffusa e, indubbiamente difficile da ricavare attraverso gli stessi numeri è quella dove un prodotto o servizio potenzialmente interessante, pur trovandosi sul mercato, non concretizza l’effettivo scambio venditore-compratore a causa di un’oggettiva distanza tra le singole offerte. Una sorta di cosiddetto ineseguito che, complice l’assenza di una concreta relazione tra la controparti, registrerà un nulla di fatto.



Ovviamente, dal punto di vista commerciale la casella bianca non è ammessa e, per colmare questo vuoto, i soggetti preposti andranno a riportare il più recente dei prezzi scambiati: magari quello dell’ultimo giorno (anche se distante nel tempo). In questo caso, il riscontro di un prezzo stabile è pressoché indicazione di male, incertezza, problema. E proprio quest’ultima sintesi attribuita al concetto di stabilità è quanto deriva dall’ultimo rapporto di Banca d’Italia in sede di Sondaggio congiunturale sul mercato delle abitazioni in Italia: “Secondo l’indagine condotta presso 1.458 agenti immobiliari dal 3 aprile al 4 maggio 2023, nel I trimestre oltre il 60 per cento degli operatori continua a indicare prezzi delle abitazioni stabili”.



Se fosse solo così, il nostro accostamento, nei fatti, non troverebbe alcuna possibile corrispondenza. Purtroppo, proseguendo nella consultazione del documento emergono diversi fattori di preoccupazione: “Le condizioni della domanda appaiono nel complesso in peggioramento, guidate da un deterioramento dei giudizi relativi al numero dei potenziali acquirenti”. Inoltre, “le prospettive sulla situazione del mercato immobiliare rimangono sfavorevoli, sebbene in lieve attenuazione, anche con riferimento a un orizzonte biennale”. Sul versante del mercato del credito, “quasi un operatore su tre segnala difficoltà nel reperimento del mutuo da parte degli acquirenti, il valore massimo dal 2015”. A questi elementi, inoltre, l’intero settore immobiliare si scontra con la dura realtà economica caratterizzata dal carovita: “Secondo la larga maggioranza degli agenti, nei prossimi dodici mesi l’andamento atteso dell’inflazione al consumo, sebbene in calo rispetto alla precedente rilevazione, continuerà a incidere negativamente sulla domanda di abitazioni”.

Infine, a rafforzare ancor di più il nostro iniziale dubbio interpretativo sul concetto di stabilità, ecco giungere al tanto temuto e oggettivo ineseguito: sempre nella lettura del rapporto di Banca d’Italia emerge come “circa la metà degli agenti segnala che fra le cause prevalenti di cessazione dell’incarico a vendere vi è un valore delle offerte ricevute ritenuto troppo basso dal venditore; una frazione analoga indica prezzi richiesti giudicati troppo elevati dai compratori”. Che nella pratica, complessivamente, sembra rappresentare un volere senza potere. Ovvero la mancanza di scambio che, tradotta, identifica una forma di stabilità: solo a prezzi teorici poiché di ieri.

Guardando alle altre motivazioni del “non scambio”, anche l’introduzione del superbonus pare incidere negativamente su questa dinamica: “Le recenti modifiche governative al ‘superbonus’, in particolare i vincoli posti alla cedibilità del credito, secondo gli operatori avrebbero complessivamente un effetto negativo sul numero di potenziali acquirenti e sui prezzi di vendita (con saldi rispettivamente di -29,7 e -18,5 punti percentuali)”. Questo l’appunto nonostante “quasi la metà degli agenti si aspetta invece che le modifiche non avranno alcun impatto significativo”.

Il segmento finora trattato è quello relativo alle compravendite e, in base all’insieme di queste considerazioni, il futuro non appare tra i più rosei. Ora, gettando uno sguardo all’altro “comparto” – quello delle locazioni – le risultanze che emergono sono decisamente poco sostenibili soprattutto in ottica di breve termine. “I canoni di affitto correnti e attesi sono segnalati in forte rialzo», «Circa un agente su due segnala un aumento dei canoni di affitto”, “La maggioranza degli operatori continua a prefigurare un ulteriore rialzo dei canoni di locazione per il II trimestre”. È palese rilevare come, questa fascia di attività, si distingue (e distinguerà) per un bene che sarà acquistato solo da coloro che potranno permetterselo. Banale, ma, purtroppo, è reale.

La conclusione, attualmente, potrebbe essere: comprare non se parla, affittare ci penserò. A tale impensabile epilogo, e guardandoci bene dal rischio di sminuire le difficoltà ed i bisogni altrui, non ci resta che assistere a una nuova e sterminata moltitudine di colonie composte da disseminate tende nelle nostre città. Gli attuali studenti dovranno cedere il posto. Tornandosene a casa. In quella casa che almeno loro, o chi per loro, l’hanno già.

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