Caro direttore,
le pressioni crescenti, interne ed esterne, sull’Italia perché ratifichi il Mes (Meccanismo europeo di stabilità) dovrebbero indurre qualche considerazione sul rapporto tra questo Fondo, i suoi antecedenti e la finanza internazionale.

Il Mes o Fondo salva-Stati ha sostituito il Fondo europeo di stabilità finanziaria (Fesf) ed il Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (Mesf) nati per fare fronte ai dissesti di Portogallo ed Irlanda creati da una speculazione finanziaria fuori controllo.



La costituzione di questi strumenti di stabilizzazione è stata avviata a seguito dell’attacco degli hedge fund all’euro cominciata nell’aprile 2010; nel febbraio di quell’anno sia il Wall Street Journal che Repubblica davano l’annuncio dell’attacco verso l’euro per destabilizzarlo avviando determinate operazioni con i futures verso i Paesi più deboli dell’area euro, essendo questo troppo forte per essere attaccato direttamente. Così come nella seconda guerra mondiale la Germania era stata attaccata in modo periferico – Africa, Italia, Normandia –, nel 2010 l’attacco comincia con la Grecia in aprile e nello stesso mese con il Portogallo e Irlanda e poi in agosto con la Spagna, per preparare nel settembre del 2011 l’attacco all’Italia. La finanza speculativa senza freni e morsi inibenti diventa il vero convitato di pietra del quadro internazionale ed è in grado di far saltare gli strumenti di stabilizzazione che rimangono sospesi nella buona – forse – volontà; l’attacco all’Italia nel 2011 è il più evidente segnale che la stabilizzazione sulla carta diventa un paravento troppo debole per resistere.



In questo ambiguo contesto avviene l’avvio del Fondo di stabilizzazione. Esso tuttavia riamane perennemente aperto alle scorrerie della finanza da rapina che indebolisce nei fatti la possibile azione del fondo, come i fatti degli anni successivi dimostreranno ampiamente. Il Mes – mi soffermo ora molto rapidamente su questi aspetti fondamentali, di cui autorevoli giuristi hanno scritto e detto su queste pagine – viene regolato dalla legislazione internazionale, ha sede in Lussemburgo ed emette prestiti per assicurare assistenza finanziaria ai Paesi in difficoltà subordinati a condizioni anche molto severe, come si è visto per l’indifesa Grecia.



Il problema del Mes

Il Fondo salva-Stati è gestito dal consiglio dei governatori, da un consiglio di amministrazione e da un direttore generale; il regolamento disciplina poi i diritti di voto secondo le quote di partecipazione per ogni singolo Stato membro. L’entrata in vigore del Mes prevista inizialmente per il 2013 è stata anticipata al luglio 2012 per la crisi dei debiti sovrani. Creato per contribuire a mantenere la stabilità finanziaria della zona euro, il Mes è in definitiva un fondo di assistenza finanziaria che dovrebbe aiutare i Paesi membri della Ue che si trovano in difficoltà finanziarie e non sono in grado di collocare correttamente i loro titoli di Stato. Il Paese che accetta questa disciplina è sottoposto a strette condizionalità, tra cui un programma di rientro e di controllo del debito con piani di aggiustamento macroeconomico che comprendono riforme particolarmente dure come è stato per la Grecia, Cipro, il Portogallo e la Spagna.

Il funzionamento del Mes dipende dalla richiesta di assistenza da parte del Paese in crisi; il Mes chiede alla Ue di valutare le condizioni dello stato di salute del Paese interessato definendo il possibile fabbisogno finanziario; se la procedura prosegue e l’iter è favorevole, avviene il “prestito” al Paese richiedente.

Nel 2017 l’Europa ha previsto di rivedere il trattato istitutivo e questo ha aperto un profondo dibattito in Italia sulle modalità di funzionamento del Mes perché le condizioni di accesso al Fondo si sono rivelate particolarmente aspre rendendo difficile e rischioso il suo utilizzo. Non solo. L’inevitabile effetto stigma sul mercato dei titoli di Stato determinato dal ricorso al Meccanismo è stato giustamente sottolineato perfino dalla Banca d’Italia.

Le condizioni più salienti della proposta di revisione – semplificando – sono le seguenti: non essere in procedura di infrazione; vantare un rapporto deficit/Pil inferiore al 3% da almeno due anni; avere un rapporto debito/Pil sotto il 60%.

Gran parte di queste condizioni erano definite già nel 2000 per entrare nell’euro. Sia l’Italia che la Grecia disattendevano il rapporto debito/Pil al 60% e quello deficit/Pil al 3%. In entrambi i casi si è ricorso ad un trucco contabile: la Grecia per entrare nell’euro ha cartolarizzato le entrate dei suoi aeroporti e porti incassando liquidità immediata, funzionale al rispetto di almeno un indicatore ma rinunciando alle entrate future, candidandosi poi al dissesto. L’Italia, non potendo rispettare il rapporto debito/Pil, ha pensato di aggirare quello del deficit bloccando tutti i pagamenti da giugno alla fine di dicembre. Il rapporto teneva, ma le spese ce le siamo trovate l’anno dopo, mentre il rapporto debito/Pil si è assestato temporaneamente per risalire quasi subito dopo il 2000. Va ricordato che la sua crescita è stata determinata anche dai movimenti dei mercati finanziari a seguito dell’attentato alle Torri gemelle nel settembre 2001. È un fatto è importante per capire la dipendenza dell’equilibrio finanziario di un Paese da fattori esterni non controllabili. Se pensiamo alla stato attuale di guerra in Europa e di scontro tra Usa e Russia-Cina, la tenuta del trattato di tutela delle finanze diventa un’impresa titanica e soggetta ad una sistematica manipolazione.

La finanza fuori controllo

Attualmente in Italia vi è un’opposizione all’adesione al Mes ed essendo l’Italia l’unico Paese a non averlo ratificato è esposta ad un continuo ricatto, data il suo squilibrio finanziario e l’alto livello del debito pubblico. Si sta cercando di trattare, ma la posizione negoziale del Paese è al momento troppo debole per poter ottenere una maggiore tutela delle proprie debolezze. Il debito è salito ad oltre 2.700 mld di euro, il rapporto debito/Pil è al 150% ed il deficit/Pil è dell’8%, il più alto della zona Ue.

Se prendiamo l’andamento della crescita del Pil, la Ue ci abbona di un indicatore positivo lievemente superiore al dato precedente, ma il fatto grave è che il debito – anche a causa dei maggiori interessi sul debito – cresce più rapidamente del Pil. Siamo uno dei Paesi con la più alta ricchezza privata ma difficilmente transitabile sulla collocazione dei nostri Btp per ridurre l’esposizione verso i detentori  e le istituzioni finanziarie straniere; il Giappone in termini numerici sta peggio di noi, ma grazie alla propria banca centrale è padrone del proprio debito e lo sottrae alla speculazione selvaggia.

Un altro elemento di debolezza dell’Italia è la totale inadeguatezza dei sistemi di controllo, che sono una foresta inestricabile di norme; in tal modo la riduzione del debito incontra un mostro giuridico che la immobilizza. Anche la politica ha le sue gravi colpe, avendo incrementato la spesa pubblica corrente per acquisire consenso. Questo ha determinato una lievitazione della spesa per la parte corrente ma non per investimenti.

Probabilmente il tavolo negoziale da affrontare sarebbe quello di definire un aiuto al Paese al netto degli effetti speculativi della finanza fuori controllo, ma qui si entra nel pieno dramma del convitato di pietra: la finanza usata come arma da guerra destabilizzante. Le condizioni della finanza globale sono in rapido peggioramento, acuite dagli effetti della guerra in Ucraina, del processo di de-dollarizzazione in atto a favore di altre monete e noi, essendo parte del sistema occidentale, non sappiamo come possa andare a finire, essendo deboli e dominati da una sistema di governance esterno a noi, quindi pericolosamente ricattabili per mano della finanza.

Servirebbero proposte di ristrutturazione della finanza per portarla sotto controllo ed evitare che i suoi colpi di coda facciano saltare i già precari equilibri di bilancio.

Questione finale

Dunque la vera partita negoziale va fatta su questo piano, in modo che si possibile avere forme di contromisura nel caso di andamenti non prevedibili; andare ad accampare altri pretesti è solo debilitante e trova interlocutori già pronti a negare tutto il possibile. Ma andare sulla tutela da attacchi speculativi senza fondamento scientifico consente di mettere i nostri interlocutori europei di fronte ad un tema che li trova impreparati e quindi più deboli nella negoziazione su un tema vero e reale. Un’agenzia di rating europea potrebbe essere la prima mossa di tutela verso ingiustificabili downgrading come successe nel 2011 con l’attacco al nostro Paese, in cui in un solo mese lo spread crebbe di 600 punti base e Standard & Poor’s ci declassò.

Curiosamente Standard & Poor’s aveva declassato gli Usa nell’agosto del 2012 ed è stata condannata dal Dipartimento di Giustizia per manipolazione fraudolenta del rating, mentre nel caso dell’Italia a parità di  condizioni è assolta a Trani perché il fatto non sussisteva: chiaro esempio di doppiopesismo.

Con la fine del Governo Monti nel 2012 il debito passa da 1.830 mld di euro a 2100 mld di euro; il Pil crolla così come lo spread, che invece di salire si abbatte in modo irrazionale ma funzionale agli interessi dominanti.

Se dopo l’accettazione del Mes dovesse verificarsi un altro attacco, l’Italia non avrebbe scampo: o consegnarsi al Meccanismo con le mani legate, o “portare i libri in tribunale”, cioè – in questo caso – consegnarsi alla speculazione internazionale e al default.

Ora serve a poco che Jack Sullivan, segretario alla Difesa Usa, faccia un’autoaccusa degli errori commessi come la finanziarizzazione dell’economia reale che ha fatto delocalizzare tutta la manifattura in Paesi che ora sembrano essere ostili bruciando milioni di posti lavoro. La denuncia da lui fatta in un discorso alla Brooking Institution dell’uso illimitato e non regolato della finanza lasciata libera di creare la maggiore disuguaglianza nella storia, serve semmai a sottolineare gli errori colpevoli di una finanza di cui non ci si può più fidare e la necessità di rimetterla al più presto in gabbia.

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