È difficile non restare felicemente sorpresi dinanzi a questa Chiesa e a questo Pontefice che, in un momento in cui l’ondata sconvolgente delle tensioni belliche ci restituisce l’immagine di una società definitivamente bloccata sul proprio realismo geopolitico – ma anche in un momento in cui le mille derive individuali ci danno la testimonianza di una collettività che, da troppi decenni, non sa più crescere – condivide la domanda provocatoria del Meeting: “Se non siamo alla ricerca dell’essenziale, allora cosa cerchiamo?”.
A questa domanda Papa Francesco dà il valore aggiunto della sua paternità, a partire dalla quale siamo tutti guardati non per le nostre malefatte o per le nostre indifferenze, ma per “il senso di impotenza” che ci portiamo dentro, dal quale deriva tutto il resto. Dal quale nasce ogni nostro incurvarsi, ogni nostro lasciar perdere, non pensarci, magari distrarsi e addirittura divertirsi.
Ed è lo stesso messaggio di don Luigi Giussani che, già a suo tempo, denunciava la nostra inerzia morale ed indicava nella nostra mancata passione ed il mancato “gusto di vivere” la vera carta di identità della nostra generazione del giorno dopo. Quella che si trova a vivere dopo che tutto è già accaduto ed ogni progetto ha mostrato i limiti della sua presunzione, a noi ostentata come prospettiva certa.
La felicità di Papa Francesco è quella di riuscire ad essere padre, e quella del popolo di Dio si racchiude nel riconoscerlo come momento essenziale per ripartire. Come nel famoso “Alzatevi, andiamo!” del suo predecessore, Papa Giovanni Paolo II, che – anche lui – ci ha raccolto tutti quando tutto era finito ed erano rimaste solo le bombe dei terroristi. Quando la nostra principale richiesta era quella di sdoganarci di quel poco che restava, magari un amore in cui credere veramente, tanto eravamo convinti che nulla durasse.
Se si prova ad alzare lo sguardo sugli ultimi settant’anni non si può non cogliere questa capacità empatica profonda – la grande dote di don Giussani – che questa Chiesa è in grado di possedere e di rilanciare, contagiandoci.
Accanto a questa capacità c’è anche l’indicazione dell’unico passaggio possibile, l’unica via d’uscita realmente praticabile: quella dell’amicizia con Dio. Quella che, nel linguaggio laico, può essere identificata come “il riconoscimento del Padre”. E se questo padre si è incarnato nel Figlio, allora, senza l’amicizia con quest’ultimo, prima o poi si cede, “la barca della nostra vita” finisce con essere “in balia delle onde” e “rischia di affondare”. Affonda anche quando non ci sono tempeste in arrivo, magari solo perché gli anni passano, i volti tendono a sbiadire, le occasioni si fanno più rare e le preoccupazioni raddoppiano.
Ma non si può essere convinti della propria amicizia con Dio se poi non si fonda né si condivide alcunché. La richiesta è al limite della provocazione: “dare vita insieme a luoghi in cui la presenza di Cristo si possa vedere e toccare”. È un’opera semplicemente irrealizzabile se non si sente la mano sulla spalla di qualcuno per il quale valga la pena farlo e che è tanto saggio da capirci, in quanto “conosce ogni miseria”.
Ma accanto a quest’obiettivo finale c’è anche una modalità di cammino. Uno stile che interviene già, ogni mattina, non appena ci si sveglia: ed è l’andare in cerca dell’essenziale. Poco importa se siamo sul palco, al centro della scena, o tra il pubblico, o magari ai parcheggi, sotto il sole. Per tutti, andare in cerca dell’essenziale è l’unica modalità adeguata di vivere, l’unica all’altezza del desiderio per il quale siamo stati fatti e amati.
Questa Chiesa, che ci riconosce nella nostra fatica, che la sa cogliere anche quando si nasconde dietro l’euforia più ostentata, è veramente un segno dei tempi. Non sono i tempi che cambiano, è la forza della Parola che si fa più prossima, più vicina.
“Per fortuna”, come dicono i laici, o “per grazia”, come dicono i credenti.
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