“Ero nel dormiveglia quando è squillato il telefonino sul comodino e un mio carissimo amico mi ha comunicato la notizia. Non mi vergogno di dire che ho fatto un salto sul letto. Dopo di che inevitabilmente il mio pensiero è andato a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e su di me si è abbattuta una venatura di fortissima tristezza, mista a rabbia.
È la vittoria delle nostre istituzioni, è stata la conferma della bravura della nostra polizia giudiziaria, in questo caso Gis e Ros dei carabinieri”. L’entusiasmo, la tristezza e la rabbia, sono quelle di Giuseppe Ayala, primo pm al maxiprocesso contro la mafia e amico di Falcone e Borsellino, di fronte all’arresto di Matteo Messina Denaro. Un criminale che potrebbe raccontare molto, soprattutto della stagione delle stragi, anche se, secondo Ayala, probabilmente non collaborerà con la giustizia.
Questo arresto ha una portata storica, porta a termine un cammino di cui sono stati protagonisti Falcone e Borsellino.
Sono stato il primo pubblico ministero che ha ottenuto la condanna all’ergastolo sia di Riina che di Provenzano e anche di molti altri, però erano latitanti. La condanna è stata importantissima, però erano liberi. Il posto giusto per loro è quello in cui poi sono finiti. L’ultimo che rimaneva era Messina Denaro. Se ne parlava da anni, sembrava impossibile prenderlo. È stato catturato un grande criminale, condannato all’ergastolo più volte non solo per le stragi di Capaci e Via D’Amelio oltre che per quelle del ’93 di Roma, Firenze e Milano. Sapere che finalmente non è più libero, non solo per me ma per tutti i cittadini per bene è una bella pagina.
Lei è stato pm al primo maxiprocesso: cosa significa questo arresto considerando la storia della lotta alla mafia?
La mafia è cambiata. È un fenomeno con una storia secolare, la relazione Franchetti-Sonnino se ne occupava nel 1876. Tradizionalmente tendeva a comparire il meno possibile, non ammazzava magistrati, giornalisti, servitori dello Stato, perché questo inevitabilmente accendeva i riflettori. Con l’avvento dei corleonesi, per realizzare quello che Falcone chiamava troppo elegantemente “il disegno egemonico”, le cose cambiarono. Già nel 1979 fu ammazzato il capo della squadra mobile Boris Giuliano, poi il fratello dell’attuale presidente della Repubblica Piersanti Mattarella nel 1980, e nell’agosto di quell’anno il procuratore della Repubblica di Palermo Gaetano Costa, l’elenco è lungo. Lì la strategia diventa quella della contrapposizione militare allo Stato.
Ci fu anche una vera e propria guerra interna alla mafia?
Sì, nel 1981 scoppiò la “guerra di mafia”: i corleonesi cominciarono ad ammazzare tutti i componenti delle famiglie palermitane che non si alleavano con loro. Ci furono centinaia di omicidi, alla fine riuscirono ad accaparrarsi il vertice di Cosa nostra, organizzazione piramidale. Al vertice della piramide c’era la cosiddetta commissione che decideva tutte le attività criminali.
Da lì si passò alle stragi: morirono Falcone e Borsellino e ci furono gli attentati di Roma, Firenze e Milano.
Questa strategia culminò con le stragi del ’92 dove morirono Falcone, sua moglie e tre uomini della scorta, Borsellino e cinque ragazzi della scorta tra cui una donna. Poi le stragi del ’93 a Roma, Firenze, Milano. Per Cosa nostra un fatto assolutamente inedito, perché prima di allora i loro delitti li consumavano a Palermo.
Dal ’93 si è tornò alla “clandestinità”?
Da quel momento, e sono passati trent’anni, la mafia ha completamente cambiato strategia, è tornata alla vecchia clandestinizzazione. Sono trent’anni che non ammazza più. Se ne parla meno anche dal punto di vista mediatico. Messina Denaro era l’ultimo protagonista di quella strategia. Successivamente anche lui si era adeguato. Lui era legatissimo ai corleonesi, in particolare a Salvatore Riina. Questo arresto ha un significato importante anche da questo punto di vista.
Mario Mori ha detto che la mafia adesso operativamente è finita. È così?
Magari. Quando mi fanno questa domanda, forse condizionato dalla pandemia, io rispondo che, lungi dal dire che la mafia è ricoverata in rianimazione, moribonda, si può dire che non sta bene, è in corsia per accertamenti, non è un periodo in cui gode di grande salute.
C’è ancora una struttura mafiosa come quella di prima o è cambiata?
È cambiata la strategia ma la logica di Cosa nostra è sempre la stessa. Non so se hanno ricostituito la commissione, pare di no, ma di indagini non mi occupo più da tempo. Però evidentemente c’è un accordo tra le famiglie perché non ci siano omicidi: si vede subito se non c’è accordo, perché in questo caso si ammazzano. La mafia esiste ancora, non ci illudiamo. Verrà il giorno in cui questo fenomeno come tutti i fenomeni umani finirà. Mi piacerebbe molto esserci.
Messina Denaro parlerà, collaborerà con gli investigatori?
Ne avrebbe di cose da dire. Spero di sbagliarmi, ma penso che non collaborerà. La ragione sono l’enorme quantità di soldi e di attività di cui dispone. Si parla di miliardi di euro. Se collaborasse dovrebbe anche parlare degli affari suoi. Spero che la mia previsione sia sbagliata, ma secondo me non ha nessuno interesse a parlare.
L’arresto non cancella quello che c’è stato ma rimane la soddisfazione di vedere realizzato uno degli obiettivi che era di Falcone e Borsellino. Come si sente a questo proposito?
Dopo l’entusiasmo per la notizia il mio pensiero è andato subito a loro, con grande tenerezza e anche un po’ di rabbia. Non riesco, dopo tanti anni, a metabolizzare il grande dolore che è stata per me la loro morte. Il nostro era diventato un legame personale fortissimo. Borsellino nell’86 era andato a fare il procuratore della Repubblica di Marsala, siamo stati insieme meno, ma con Falcone abbiamo praticamente convissuto per dieci anni, anche le poche vacanze le facevamo assieme. Io sono figlio unico, ma se devo immaginare il sentimento per un fratello io immagino Giovanni Falcone e devo dire che era reciproco, perché lui si definiva il mio fratello maggiore.
(Paolo Rossetti)
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