Nessuno può negare che l’arresto di Matteo Messina Denaro, all’esito di una brillante e storica operazione della Procura della Repubblica di Palermo e dei Carabinieri, sia un indiscutibile successo, perseguito da anni con sacrifici e impegno significativi e costanti, e una vittoria dello Stato che conferisce rinnovata fiducia ai cittadini, non solo palermitani, emblematicamente espressa nelle manifestazioni di soddisfazione e di giubilo al momento della cattura del latitante.
Ma, proprio in questi momenti, non si dimentichi che “l’ultima mafia è sempre la penultima” (don Ciotti). Quanti giovani mafiosi sono in fila per scalare i gradini dell’organizzazione e prendere il posto della “primula rossa” di Cosa nostra?
Se cordialmente condivisibile appare la soddisfazione, fino all’esultanza, di cittadini siciliani, non si possono eludere, in questi momenti e a poche ore dall’arresto, anche gli interrogativi su quella zona grigia che ha favorito, protetto e agevolato la trentennale latitanza dell’ultimo dei Corleonesi, catturato proprio nello stesso territorio da cui non si era allontanato per esercitare più efficacemente il dominio criminale.
Sono domande, tutte, che chiamano in causa non le iniziative e l’impegno di repressione giudiziaria e delle forze dell’ordine, coronati da straordinari risultati, ma soprattutto quelli di prevenzione generale e sociale, di competenza soprattutto delle istituzioni locali e regionali e delle organizzazioni sociali. Queste ultime – o almeno alcune di esse, associazioni cattoliche, organismi antiracket, antiusura e di promozione della legalità – sono apparse, dopo le stragi del 1992, vivaci ed operative assieme ad una parte della società civile siciliana. Così come la Chiesa siciliana che, con efficace determinazione, si è pronunciata in molte occasioni ed ha operato fattivamente contro il “cancro mafioso” e le sue degenerazioni.
Allora il lavoro non è ancora finito; anzi, per certi versi, il successo odierno rende ancor più urgente e necessario quell’impegno istituzionale e sociale di prevenzione che, solo, può consolidare i risultati raggiunti ed evitare il perpetuarsi delle condizioni che contribuiscono a dar luogo a fenomeni di devianza e di criminalità.
Dopo questa svolta decisiva nelle iniziative di contrasto alla mafia, i decisori pubblici, non solo locali, e la classe dirigente siciliana dovranno considerare, ancor più seriamente, le emergenze e le “ferite”, alcune storiche, che continuano a segnare l’organismo sociale, economico, istituzionale e produttivo isolano e che condizionano, talvolta in maniera determinante, il futuro dei giovani siciliani.
Si può e si deve contenere ed arrestare quella deriva che conduce tanti ragazzi, che non lavorano e hanno abbandonato la scuola o la formazione professionale, ad essere reclutati e divenire manovalanza a buon mercato ed apprendisti del crimine, anche organizzato e mafioso.
Soprattutto in questi momenti, non si deve dimenticare che la Sicilia, che ha registrato il 19,4% di dispersione e abbandono scolastico, guida la pattuglia delle 4 regioni più svantaggiate, con Campania, Calabria e Puglia, poste al di sopra della media nazionale del 13,1% e ben lontane dalla media europea del 9,9% (Istat 2020).
Catania, inoltre, con il 25,2%, detiene il triste primato della povertà educativa, prima fra le 14 città metropolitane (elaborazione su dati Istat e Openpolis di The European House-Ambrosetti). Quasi con un legame inscindibile, le regioni con maggior tasso di abbandono scolastico fanno registrare, secondo rilevazioni indirette, anche i più bassi livelli di occupazione giovanile.
Si tratta, peraltro, degli stessi ambiti regionali in cui si rilevano le più alte percentuali di denunce per associazione a delinquere, anche di stampo mafioso, a carico di minorenni (14-17 anni; elaborazione Openpolis su dati Istat).
L’educazione e la formazione professionale sono, quindi, leve decisive per “tagliare l’erba sotto i piedi della cultura mafiosa”. “La mafia teme più la scuola della giustizia”, disse Antonino Caponnetto, primo coordinatore del pool antimafia di Palermo. Uno dei più acuti intellettuali isolani, Gesualdo Bufalino, sosteneva che “un esercito di maestre sconfiggerà la mafia”.
Troppe volte molti giovani, peraltro, partono per cercare lavoro e non tornano più; tale circostanza è destinata ad impoverire gradualmente il capitale sociale ed umano su cui la Sicilia potrà in futuro contare.
Paradossalmente, a fronte dei numeri preoccupanti di dispersione scolastica e dell’insufficienza della formazione professionale, nella Sicilia orientale sono previsti ingenti risorse per la realizzazione o l’ampliamento di iniziative produttive in settori innovativi: 730 milioni di euro ( di cui 292,5 a valere sul Pnrr) nello stabilimento STMicroelettronics di Catania per la produzione di componenti elettronici basati sul carburo di silicio e 600 milioni in quello di Enel Green Power-3Sun, sempre nel capoluogo etneo, per moduli fotovoltaici.
È, perciò, il momento che i decisori pubblici promuovano investimenti sulle giovani generazioni, avviando con decisione programmi ed interventi idonei a mettere in collegamento offerta di lavoro e qualificazione professionale.
Occorre continuare a seguire il metodo di Falcone, “follow the money”, che ha dato straordinari risultati grazie alle misure patrimoniali, prosciugando le risorse e i patrimoni di numerosi mafiosi, colpiti nelle tasche e nell’orgoglio.
Ma bisogna anche ricostruire il capitale sociale e produttivo isolano, investire sulle risorse positive, sui giovani, sull’occupazione, sul turismo, sulle qualità ambientali, sulle infrastrutture, cioè su ciò che, in prospettiva ed in un’ottica di prevenzione, possa creare le condizioni affinché si avveri quanto sosteneva Paolo Borsellino: “Se la gioventù le negherà il consenso anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo”.
Non bisogna più “girarsi dall’altra parte” e rassegnarsi alla corruzione della vita sociale, politica ed economica, purtroppo non solo siciliana, perché “essa è un processo di morte che dà linfa alla cultura di morte delle mafie e delle organizzazioni criminali” (Papa Francesco).
È l’ora in cui bisogna prosciugare con maggiore determinazione il brodo di coltura della mafia e dell’illegalità: “Si può benissimo avere una mentalità mafiosa senza essere un criminale”, ricordava Giovanni Falcone.
È l’ora in cui ciascuno, soprattutto se investito di pubbliche funzioni, deve sentirsi interpellato a dare il proprio contributo alle iniziative di prevenzione generale e sociale sulle orme di don Pino Puglisi, ucciso a Brancaccio da mano mafiosa perché sottraeva ragazzi alla mafia: “se ognuno fa qualcosa allora si può fare molto”.
È il momento di avere quale punto di riferimento Rosario Livatino, ucciso da aderenti al clan mafioso della Stidda, primo magistrato ad essere proclamato beato quale “martire della giustizia e della fede”.
Ed assieme a loro i magistrati, gli appartenenti alle forze dell’ordine, i giornalisti, i professionisti, i sindacalisti, gli esponenti pubblici e i semplici cittadini, perseguitati e uccisi dalla mafia che tutti combattevano. “Perché la mafia è un fatto umano e come ogni fatto umano ha un inizio e avrà una fine” (Giovanni Falcone).
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