Metalli rari fondamentali per la produzione di batterie per auto elettriche e necesari alla transizione energetica, è scattata da tempo la corsa all’approvvigionamento tramite estrazione ed esportazione di: nichel, cobalto, rame e litio da parte dei paesi più industrializzati, richiedendo l’apertura di nuove miniere e la riapertura di quelle ormai dismesse da tempo. Una decisione presa da molti paesi produttori che intendono sfruttare il momento di grande richiesta su scala globale, con aumento anche dei prezzi delle materie prime. Almeno fino a quando i ricercatori non troveranno un’alternativa. Il Financial Times sta conducendo un’inchiesta a tema pubblicando periodicamente anche i dati sempre in crescita, riguardanti i paesi che principalmente sono ai vertici di questo commercio.
Cile, Congo, Indonesia ed Australia sono attualmente quelli che più dispongono di risorse naturali e di depositi di metalli rari. Nell’analisi del quotidiano emerge quindi che i rispettivi governi stanno ora tentando di modificare le regole di questi scambi commerciali per ricavare il massimo da ogni operazione e soprattutto per aumentare l’economia interna grazie alla statalizzazione delle miniere.
I paesi produttori di metalli rari pensano alla statalizzazione delle miniere
I principali produttori di metalli rari per batterie di auto elettriche stanno conducendo una politica interna che porterà a riscrivere le regole dell’industria estrattiva. Come ad esempio sta facendo da tempo l’Indonesia, nazionalizzando le miniere e limitando le esportazioni di nichel grezzo. L’opportunità di avere, seppur per un periodo di tempo limitato, il monopolio su tali minerali, è considerata imperdibile, anche perchè questo farà aumentare i prezzi incrementando i livelli economici di ogni stato.
Come sostengono gli economisti, tutto ciò è necessario affichè venga portata avanti una politica comune che offra vantaggi a entrambe le parti, cioè sia a chi vende che ai paesi terzi acquirenti. Ma non solo, perchè è utile anche ad arginare il fenomeno della Cina, che ormai da anni controlla la maggior parte di queste attività grazie ad investimenti milionari offerti alle nazioni produttrici come Cile e Repubblica Democratica del Congo, ma chiedendo in cambio un controllo del prezzo, della filiera estrattiva senza però garantire servizi e livelli di lavoro dignitosi per gli operai.