Dopo mesi di blocco delle attività economiche, produttive e delle relazioni sociali, quando finalmente il Mezzogiorno poteva ricominciare a respirare godendosi il mare e attirando con le sue bellezze naturali e paesaggistiche il flusso crescente degli italiani in vacanza, ecco che è arrivata una nuova emergenza che rischia di compromettere la stagione turistica.
Lo sbarco sulle coste calabresi di migranti, alcuni dei quali affetti da Covid-19, è la dimostrazione che l’Italia resta sempre terra di approdo dei trafficanti di uomini, snodo strategico per le rotte degli scafisti, centro di smistamento di migranti che dalle coste calabresi vanno a rinfoltire l’esercito degli immigrati clandestini usati come manovalanza nei campi della criminalità organizzata o a transumare su per il Centro-Nord nelle città metropolitane, dove è più facile sopravvivere nell’illegalità tra stenti e delinquenza comune. Pesa in questa scelta la conformazione stessa dell’Italia al centro del Mediterraneo, ma pesa anche e soprattutto la scelta del presidente del Consiglio Conte di eludere il problema, che ha conseguenze più gravi sulle propaggini territoriali estreme, la Calabria appunto.
Non a caso è il Mezzogiorno, Sicilia e Calabria in trincea, a subire il peso di questa tragedia migratoria che solo il Covid-19 è riuscito temporaneamente ad attenuare ma che resta pronto a deflagrare di nuovo appena saremo tornati alla normalità. È quella “normalità” che il Mezzogiorno ha intenzione di combattere nel tentativo di risollevarsi dalle scelte economiche e politiche fallimentari che sono state assunte dai governi regionali e nazionali nella fase pre-Covid e post-Covid.
L’analisi dei dati socioeconomici dell’Italia pandemica ha dimostrato per la prima volta dalla storia post-unitaria che il Sud d’Italia ha resistito meglio alla crisi che ha travolto l’Italia del Nord. Molte possono essere le ragioni che hanno determinato questa vera e propria resistenza e resilienza al contagio del Mezzogiorno. Un tasso di inquinamento ambientale inferiore, la minore industrializzazione, meno aree contaminate interconnesse, una minore mobilità: insomma ciò che ha costituito il limite della geografia politica ed economica delle regioni del Sud si è improvvisamente trasformato in arma di protezione efficace contro la pandemia rafforzata da severe politiche di contenimento e di chiusura dei confini. Nell’arco di tre mesi, il Mezzogiorno d’Italia ha superato brillantemente la fase critica per fattori endogeni ed esogeni tanto da poter aspirare al rientro alla vita se solo fosse stato possibile introdurre una doppia velocità per il rientro alla normalità. Una per il Mezzogiorno, che avrebbe consentito alle regioni del Sud di compensare gli annosi ritardi economici e produttivi, e una più graduale per il Nord d’Italia. Ma Conte non ha mai prestato attenzione a questa proposta. Lo abbiamo sostenuto più volte durante il lockdown: perché usare gli stessi criteri di contenimento e chiusura per la Lombardia e il Veneto anche per la Calabria o la Basilicata? Non c’è ingiustizia peggiore, diceva don Milani, che trattare diversamente gli eguali e ugualmente i diversi.
Ecco, il Mezzogiorno d’Italia ha subito ancora una volta un trattamento iniquo perché per la prima volta è stato trattato al pari delle altre aree d’Italia proprio quando aveva maggior bisogno di diversità. La parità di trattamento nella disgrazia non rende meno tragica la disgrazia a chi la patisce maggiormente ma rende la rende più dolorosa a chi ne è scampato. Questo ha fatto il Governo Conte, costringendo il Sud a tempi di chiusura e di riapertura delle attività produttive, lavorative e sociali uguali a quelli delle aree maggiormente colpite. In questa miopia politica, alla quale il beneficio del dubbio sulla cautela sanitaria costringe a guardare con indulgenza, si sono però aggiunte chiare e meditate opzioni politiche nelle quali perdura l’assenza di politiche a sostegno della crescita delle regioni meridionali. Nella pletora di decreti legge varati dal Governo il Mezzogiorno non esiste.
E questa assenza va a corollario di un altro elemento di valutazione. È stata recentemente diffusa una ricerca sul divario digitale e scolastico della fase pandemica. Una notizia uscita pochi giorni fa ma che purtroppo non ha avuto la necessaria attenzione dei media tradizionali. Secondo il Rapporto Istat (2020) “durante il lockdown siano stati approssimativamente 3 milioni (tenendo conto dei dati del 2019) gli studenti di 6-17 anni che per la carenza di strumenti informatici in famiglia o per la loro inadeguatezza potrebbero aver incontrato difficoltà nella didattica a distanza. Una mancanza che, ancora una volta, si accentua nel Mezzogiorno, dove si ritiene che arrivi ad interessare circa il 20 per cento dei bambini”. Se consideriamo, quindi che gli studenti in totale sono otto milioni, circa il 37,5% dei ragazzi sono rimasti esclusi. Per loro la scuola è terminata con almeno tre mesi di anticipo. Centinaia di migliaia di bambini del Mezzogiorno sono rimasti esclusi dalla Dad o perché non avevano il computer o perché il loro paese non era raggiunto dalla rete.
Alla povertà economica, accentuata dall’emergenza Coronavirus, si somma la povertà educativa che è quella che impedirà di fatto l’ascensore sociale, già duramente messo alla prova da pratiche che con la meritocrazia hanno poco a che vedere.
Il Mezzogiorno ha bisogno di voltare pagina definitivamente per aprire un nuovo capitolo che metta al centro la scuola, la formazione e la vocazione territoriale. Questa vocazione si declina con la valorizzazione dei beni culturali e immateriali: turismo, enogastronomia, tradizioni, borghi, mare, paesaggio. Eden e Magna Grecia insieme.