Notazione calcistica: chi scrive è un romano che da almeno trent’anni tifa Juventus e vive da sempre la Roma e i romanisti come avversari, persino come nemici. Chi scrive ha concluso la visione di Mi chiamo Francesco Totti con il volto segnato dalla commozione. Un dato empirico che sta a testimoniare l’efficacia del documentario di Alex Infascelli, attesissimo alla Festa del cinema di Roma prima dell’uscita in sala.



È lo stesso Pupone a raccontarsi in prima persona, la notte che precede il suo addio al calcio: racconta tutta la sua vita e le sue opere sportive mettendo in primo piano le sue emozioni, il suo orgoglio misto a ironia, la spontaneità che ne ha sempre accompagnato i gesti e la malinconia per una grande storia che stava finendo.



Scritto da Infascelli con Vincenzo Scuccimarra a partire dal libro che Totti ha scritto con Paolo Condò (Un capitano edito da Rizzoli), Mi chiamo Francesco Totti è un’autobiografia in tutto e per tutto, in cui è la voce dell’ex-capitano della Roma a menare le danze, a condurre il racconto tra sport e vita privata, a riflettere sul senso delle scelte e delle azioni compiute.

A Infascelli il compito di lasciarsi guidare, di scovare immagini significative, di montarle (assieme a Emanuele Svezia) nel modo più avvincente possibile, ma non solo: cavalcando l’onda dei ricordi del suo protagonista, il regista riesce a trarne fuori l’elemento che accomuna l’uomo fuori e dentro il campo, a dare una rilevanza non solo sportiva a gesti come il cucchiaio nei rigori di Olanda-Italia di Euro 2000 o il penalty che decise Italia-Australia ai Mondiali vinti nel 2006.



E ancora, scegliendo quella cornice fittizia, la notte prima dell’addio, riesce a intessere il ritratto commovente di un uomo alle prese con il tempo che passa, in lotta contro il tempo stesso, sconfitto forse ma non vinto: tutta la parte del rapporto con Spalletti e i due gol in pochi minuti contro il Torino partendo dalla panchina sono memorabili.

Certo, è un’operazione celebrativa, ma costruita, realizzata e raccontata con passione, sincerità, emozione personale che si amplia nella dimensione collettiva propria dello sport e del calcio in generale. Tanto da permettere anche a juventini inveterati di commuoversi e piangere all’addio di un campione. “Speravo de morì prima” si legge su un cartellone allo stadio durante quell’ultima partita (e sarà il titolo della serie Sky su Totti): ma lo sappiamo bene, certe leggende non muoiono davvero mai.