Tutto nasce da un’idea e dall’entusiasmo di Letizia Bardazzi, presidente dell’Associazione dei Centri Culturali: dopo aver letto il mio “Nel nome di Dante”, edito da Ponte alle Grazie, e dopo aver visto i risultati delle “chiamate pubbliche” che ho realizzato insieme a Ermanna Montanari attorno alla “Divina Commedia”, per Ravenna Festival, a Matera capitale europea della cultura, in Kenya dietro invito della ong Avsi, mi ha proposto di coinvolgere i Centri da lei diretti e arrivare infine al Meeting di Rimini. La pandemia ha invertito il percorso: partirò dal Meeting per poi approdare in autunno alle quattro città.



In Piazza Tre Martiri non ci sarà uno spettacolo, ma una giocosa dimostrazione di lavoro teatrale, fondata su semplici domande: come creare un coro? Come far sentire che la teatralità è un dono presente in ogni essere umano? Come comprendere il potere a suo modo liberante dell’esperienza scenica? Lavorerò con un coro di 60 cittadini, incontrati appena il giorno prima, attorno ai primi due canti dell'”Inferno”. 



Dante ci è contemporaneo in maniera vertiginosa. Perché il perdersi nella “selva oscura” è ancora l’esperienza fondante del nostro essere umani. Solo gli arroganti e gli insensibili non si perdono: sono troppo sicuri di sé. Poi arriva il giorno in cui il loro castello si rivela costruito sulla sabbia, e crollano. Il presente è caos, ce lo sta insegnando ancora questa pandemia, per chi l’avesse scordato. Ma attraverso il caos si può trovare la “verace via”: Dante questo ci insegna. Ci insegna che non dobbiamo aver paura della nostra “ombra”, ma attraversarla con coraggio, come fa lui guidato da Virgilio, andando al fondo del nostro male, e là, in quel pozzo oscuro, trovare la via per uscire “a riveder le stelle”.



È una favola che parla a tutta l’umanità: mi è bastato raccontare l’incipit della “dark forest”, il desiderio di quell’uomo di arrivare alla luce, per convincere 150 bambini e adolescenti di uno slum di Nairobi, totalmente ignari di chi fosse Dante Alighieri, a mettere in scena insieme a me il “sacro poema”. Abbiamo camminato insieme, condividendo il senso profondo di quella “favola antica”. Perché il teatro o è questo, un vero e proprio pellegrinaggio, o è destinato a scomparire. Pensiamoci: nell’epoca dei social da milioni di followers, il teatro è un nobile decaduto. Non ha i “numeri” per contare. Può contare solo se va alle radici ancora rivoluzionarie del suo linguaggio: il linguaggio del corpo, psiche-corpo, nella sua interezza, qui e ora.

Possiamo definire questa interezza con “la paroletta presa a prestito dai Greci”, come diceva il giovane Nietzsche: Dioniso. Il mio è un Dioniso purificato dall’incontro con Cristo, il Dioniso che amavano Holderlin e Simone Weil, e prima ancora, nel Rinascimento,  Marsilio Ficino. Io credo a una nuova alleanza che gli artisti teatrali possono stipulare con i cittadini: artisti che hanno bisogno di “mondo” per dare linfa alla propria arte, cittadini che si rifiutano di essere solo “spettatori”, numeri per l’audience. Da questa alleanza può nascere una nuova vita per l’arte scenica.  

Una leggenda medievale dice così, che “la Divina Commedia verrà compresa solo tra sette secoli”. Ci siamo arrivati, ma la leggenda non va presa alla lettera: va intesa. Sette secoli sono come sette secondi: il poema viene capito se il cuore di chi lo legge è spalancato, è sufficiente un istante di purezza. Un lampo. Se no non basteranno i millenni. 

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