Il calcio come pretesto per la violenza? Il calcio come uno stupro di gruppo, fenomeno paragonabile al catcalling collettivo e al vandalisimo in senso stretto? La pensa così Michela Murgia, in un articolo comparso su Espresso: la scrittrice e blogger porta come riferimento della sua tesi un saggio dell’antropologo Marc Augè e un’analisi di Luigi Zoja, un sociologo e psicanalista, secondo i quali – riassumendo – il calcio sia equiparabile alla religione che, “ospita e dà alibi anche alle peggiori energie distruttive” (secondo Augè) e possa essere racchiuso nel fenomeno del centaurismo (Zoja) secondo cui, come le figure mitologiche, i “tifosi” agiscono “selvaggiamente in gruppo e utilizzano la violenza come forma di affermazione”. La tesi che la Murgia porta avanti è che i tifosi non siano tifosi, prendendo a esempio quanto visto in Inghilterra dopo la sconfitta dei tre leoni nella finale degli Europei 2020: “sono uomini convinti che la mascolinità, per essere autentica, debba sempre sottintendere la possibilità della violenza su chi è percepito come più debole”.
Ora, fin qui la tesi e, diciamolo, fin qui nemmeno niente di curioso o rivoluzionario: il bullismo è esattamente questo, in qualunque ambito e da qualunque lato lo si giri e lasciando perdere per un attimo gli aspetti più profondamente psicologici. L’affermazione del forte sul debole: benissimo, ma cosa c’entra con il calcio? Perché, in che senso gli episodi in Inghilterra (e potremmo citarne tanti altri, purtroppo) devono essere slegati dal contesto della finale degli Europei? Da che punto di vista? L’argomentazione di Michela Murgia appare parziale: da una parte “scontata” (nel senso: non aggiunge alcunchè a quanto già sappiamo, o abbiamo detto in più salse), dall’altra limitata e circoscritta, più che altro generalizzante. La tesi è: un uomo generalmente mite e tranquillo, inserito in un gruppo diventa violento. Bene: quindi? È così dall’alba dei tempi ed è certamente un problema, perché (ri)tirarlo fuori adesso, prendendo a esempio i disordini inglesi? A parere del sottoscritto sembra che il punto non stia nel bisogno di essere violenti, quanto nel fatto che l’uomo, per dirla con San Paolo, desidera per sua natura fare il bene ma compie il male che non vuole, perché anche il male è insito in noi, ed è una lotta continua.
Fuor di cattolicesimo, il tema resta sempre lo stesso: Murgia dice “non sono tifosi” di chi compie atti vandalici, stupri e pestaggi di gruppo. Perché? Nei suoi romanzi Irvine Welsh, che quel mondo lo ha frequentato, descrive molto bene il fenomeno degli hooligans (in quel caso dell’Hibernian, squadra scozzese di Edimburgo, ma anche del West Ham) e mai una volta viene il dubbio che con il calcio c’entrino poco. Anzi: quei ragazzi parlano e si confrontano su allenatori e giocatori, ricordano le coppe vinte, gioiscono per un 7-0. Solo che sono anche violenti, quindi prima delle partite (e pure dopo) fanno le imboscate ai tifosi avversari e si picchiano selvaggiamente. Nelle parole dei saggi emerge come la volontà, da una parte, di fare di tutta l’erba un fascio (“il calcio si presta facilmente a ospitare energia distruttiva”) e quindi demonizzare un mondo per intero – il paragone magari calza poco, ma è la stessa equazione del “un prete è pedofilo = tutti i preti lo sono = la chiesa è marcia e corrotta” – dall’altra parte quasi di prendere le distanze, esorcizzare il problema, sostenere che “non sono tifosi”. Il punto è che lo sono, e che gli uomini possono essere violenti nel calcio come al cinema, in un fast food come ad un concerto o ai bordi della strada in un sabato sera qualunque. Che poi una finale degli Europei possa fare da detonatore, d’accordo: ma il problema non è mai “il calcio”, come il problema non è “la religione” (lo prendiamo come esempio) se storicamente qualche brutto momento c’è stato (e li conosciamo) e ci sono anche oggi.
Il problema è sempre dell’individuo, della libertà dell’individuo: e in questo, e arriviamo anche all’ultima parte del problema, rientrano anche le donne. In un periodo in cui è diventato delicato anche solo dire “uomo e donna”, è giusto sottolineare che Murgia nel suo articolo parla di violenza “maschile”, di “mascolinità performativa”, di “mascolinità che sottintende la violenza”. Come dire, anzi detto proprio in questi termini: le donne ne sono immuni, del resto il calcio è uno sport maschile e quindi sono i maschi che fanno disordini. Ora, magari non sarà il caso di citare un passato fin troppo noto (furono donne a compiere gli omicidi Tate-La Bianca) ma quello che risulta inaccettabile (sì, usiamo questa parola) è proprio questo: che si possa citare il maschio come riassunto del male nel mondo, un animale che vive, sotto sotto, per avere l’occasione di scatenare la sua furia ed essere violento, con l’antidoto di isolarlo da tutti (quindi, sottinteso, o metterlo in prigione o non farlo uscire di casa) per renderlo innocuo. Sullo sfondo il calcio, sempre il calcio, nient’altro che il calcio (e la religione, ça va sans dire): quindi eliminando il calcio, dice Murgia citando antropologi e sociologi, la violenza sparirebbe. Già, il calcio è uno sport per maschi: chiedete a tutte le donne che hanno seguito l’Italia agli Europei.