Ma vediamo alcuni punti salienti: Michelangelo si vede accantonare una commissione importantissima (la Tomba dello stesso Giulio II, opera per la quale aveva passato otto mesi nelle cave di Carrara a scegliere i marmi) e affidare un’opera vasta come impegno ma “cosa povera” come pensiero (la proposta del Papa di dipingere i dodici apostoli e “appropriati ornamenti” sulla volta della Sistina), e per di più in pittura, arte che egli considerava inferiore alla scultura, e infine costretto a lavorare in condizioni terribili senza ritenersi fatto per quel mestiere: “La mia pittura morta/ difendi orma’, Giovanni, e ’l mio onore/ non sendo in loco bon, né io pittore” (Michelangelo, Sonetto 5).
Ma è in questo momento che egli svela la sua grandezza, che non fu quella di rimanere abbarbicato a una propria idea (affermava – a torto – ma chissà se in buona fede? che Bramante avesse macchinato di affidargli questa commessa per screditarlo pubblicamente). Accetta, non senza resistenze, tentativi falliti, distruzioni, fughe e ritorni, il compito che gli è dato, e da questa disponibilità emerge il capolavoro supremo della Volta (rivide forse se stesso dipingendo la gigantesca figura del profeta Giona in atteggiamento reticente rispetto alla missione da Dio affidatagli?).
Di fronte alla prima reticenza e fuga da Roma dell’artista, Giulio II scrive una lettera sorprendente a Pier Soderini, Gonfaloniere della Repubblica Fiorentina, in cui reclama che gli sia rimandato l’orgoglioso artista, ma lo scritto svela anche la profonda conoscenza degli uomini che il papa possedeva (per le citazioni dalle lettere cfr. l’ottima ricostruzione di Antonio Forcellino, La Cappella Sistina. Racconto di un capolavoro (Laterza, 2020):
“Diletti figliuoli, salve e apostolica benedizione. Michelagnolo scultore, che si è partito da noi senza fondamento e a capriccio, per quanto intendiamo, teme di tornarci, contro cui non abbiamo che dire perché conosciamo l’umore degli uomini di tal fatta. Ma tuttavia, acciocché deponga ogni sospetto, esortiamo quell’affetto che avete a noi, perché gli voglia promettere da parte nostra, che se ritornerà, da noi non sarà né tocco né offeso, e lo rimetteremo in quella stessa apostolica grazia, nella quale era avanti la sua partenza. Roma li 8 di luglio 1506, l’anno III del nostro pontificato”.
“Perché conosciamo l’umore degli uomini di tal fatta”: alcuni storici collocano in questa affermazione la nascita dell’artista moderno, che non si sottomette ad alcuna autorità, e l’autorità si trova suo malgrado di fronte a qualcosa che non può padroneggiare arbitrariamente.
In quella, preso nel braccio di ferro tra i due, il povero Gonfaloniere di Firenze si dà allora da fare per convincere il testardo artista:
“Tu hai fatta una prova col papa, che non l’arebbe fatta il re di Francia. Però non è più da farsi pregare. Noi non vogliamo per te far guerra con lui e metter lo stato a nostro risico. Però disponiti a tornare”. (Pier Soderini, Gonfaloniere di Firenze, a Michelangelo).
Michelangelo accetta, ma torna con un progetto dieci volte più grandioso di quello che era stato proposto. Orgoglio? Megalomania? Sete di successo, di denaro, di gloria? Vedremo, ma i primi passi sono tutt’altro che semplici: egli non conosce ancora bene il mestiere in quelle condizioni, i materiali reagiscono in modo diverso da quelli in uso a Firenze, ed egli è scoraggiato al massimo grado:
“Io ho pur detto a Vostra Santità, che questa non è mia arte: ciocch’io ho fatto è guasto: e se nol credete, mandate a vedere”.
“[…] è già uno anno che io non ho avuto un grosso da questo Papa, e no’ ne chiego, perché el lavoro mio non va inanzi i’ modo che a me ne paia meritare. E questa è la difichultà del lavoro, e anchora el non esser mia professione. E pur perdo il tempo mio sanza fructo“ (Lettera di Michelangelo al padre, Michelangelo, Il Carteggio, Vol. I)
Ma, superato l’empasse (arrendendosi per una volta e chiedendo l’aiuto dei colleghi) egli concepisce e partorisce creature di immane forza e accecante splendore. L’uomo, per Michelangelo, non è il “metro” di tutte le cose dell’Umanesimo laico, ma l’essere che incarna la bellezza ideale che riceve da Dio: “Quella che Michelangelo canta, del resto, non è la Renovatio Urbis, hic et nunc, della Roma di Giulio II come nuova età dell’oro, secondo l’ottica che Raffaello segue a pochi metri di distanza (nelle Stanze Vaticane), bensì egli esalta il primato ideale e culturale della religione cristiana e della cultura italiana, e fiorentina in particolare, intese in una dimensione metastorica che travalica il presente e si pone come punto di riferimento atemporale che aspira all’eternità […]” (G.C. Argan, Storia dell’arte italiana).
Nella figura del Padre celeste che si protende e la cui onnipotenza nel contempo si arresta sulla soglia della libertà dell’Uomo-Figlio, il cui dito dista solo pochi centimetri, si mostra la grandezza di come Michelangelo concepisce Dio: quella microscopica distanza è segno dell’abissale amore che si manifesta nel creare un essere libero. Dio che dona tutto all’uomo, fino alla propria immagine, cioè di essere libero, capace di ricevere e dare liberamente amore.
Questa immagine poteva essere dipinta da un artista che lavorasse per la propria gloria? Forse abbiamo un concetto di gloria che differisce da quello che il mondo considera tale. Forse non abbiamo ancora una immagine chiara di cosa significhi “essere come Dio” (cfr. Paolo Prosperi, Sulla caduta degli angeli. Indagine sulle origini del male, Marcianum press, 2023).
(2 – continua)
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.