Domenica 2 luglio 1961. Ketchum (Idaho), Stati Uniti. Casa di Ernest (e Mary Welsh) Hemingway. È l’alba: il sole sorge ancora. The Sun Also Rises: il titolo originale del primo romanzo (1926). «Il sole sorge e il sole tramonta, si affretta verso il luogo da dove risorgerà»: tra i primi versetti di uno dei libri sapienziali, il cui autore così dà inizio alle investigazioni sul mistero e il problema della vita. Ma è altro che il sessantaduenne scrittore in «vestaglia da imperatore rossa» va cercando di prima mattina: un fucile a doppia canna e qualche cartuccia.



Nonostante un sabato relativamente tranquillo, una cena al ristorante con Mary e alcuni amici e una vecchia canzone imparata in Italia (“Tutti mi chiamano bionda”) canticchiata con lei prima di coricarsi. Chissà se gli passano per la testa (anche) il Veneto dei suoi diciott’anni, il “Country Club” di Schio («The finest place on Earth», «Il più bel posto della Terra», come riporta la targa commemorativa bilingue all’ingresso del Lanificio Cazzola), i tornanti della strada che sale fin sotto i roccioni del Pasubio («Hai mai sentito nel sangue dentro di te il crepuscolo di giugno delle Dolomiti?»), quell’ansa del Piave (“il buso de Burato”), quella notte di luglio a Fossalta (dove una stele lo ricorda: «Su questo argine / Ernest Hemingway / volontario / della Croce Rossa Americana / veniva ferito / la notte dell’8 luglio 1918»). O se quelle recenti e micidiali serie di elettroshock per tentare di levargli la memoria delle ossessioni che lo tormentano hanno ormai fatto il vuoto, lasciandogli solo «cicatrici profonde», «un deserto senza pesci», insieme a un senso di «sconfitta perenne» (come nell’incipit de Il vecchio e il mare, 1952). 



Non si sa: c’è solo il tempo per uno sparo e lo spazio per un tonfo. La fine di una vita che è già leggenda: eppure, un’esistenza di gran lunga più profonda e affascinante del mito che egli stesso ha contribuito a puntellare. 

Dieci anni fa, il film Midnight in Paris (2011), scritto e diretto da Woody Allen, scelto per aprire la 64ª edizione del Festival di Cannes, dava spazio sia alla Ville Lumière che (anche) allo scrittore. Gil Pender, sceneggiatore hollywoodiano di successo e aspirante romanziere, è a Parigi con la fidanzata e i genitori di lei. Smarritosi cercando di rientrare da solo in albergo, dopo i dodici fatidici rintocchi, si ritrova immerso negli anni Venti e nella sua prima, magica “mezzanotte a Parigi”: prima fa la conoscenza di Zelda e Scott Fitzgerald e poi, nello storico Polidor, viene presentato al suo idolo, Hemingway appunto, che fa subito cenno a un libro appena pubblicato. Le battute che seguono sono un purissimo distillato del suo pensiero firmato Allen (che grazie al film otterrà il Premio Oscar per la migliore sceneggiatura originale, quarta statuetta in carriera): «È un buon libro, perché è onesto, come libro. Ed è quello che la guerra fa agli uomini, e non c’è niente di bello e nobile nel morire in mezzo al fango, se non muori con grazia e, allora, non è solo nobile, ma coraggioso». 



Poi, in merito al primo tentativo narrativo di Gil: «Nessun soggetto è terribile se la storia è vera e se la prosa è chiara e onesta e se esprime coraggio e grazia nelle avversità». Infine, quando Gil gli chiede di leggerne le bozze: «La mia opinione è che lo odio. […] Se è brutto, lo odio perché odio la brutta prosa, se è buono, sono invidioso e lo odio ancora di più. Non chiedere mai il parere di un altro scrittore. […] Gli scrittori sono competitivi. […] Tu ti annulli troppo. Non è da uomo! Se sei uno scrittore, definisciti il miglior scrittore, ma non lo sei finché ci sono io, a meno che non ti metti i guantoni e chiariamo la cosa!». 

C’è poi una seconda “mezzanotte”, introdotta dai consueti rintocchi cui fa seguito un brevissimo episodio bellico narrato da Hemingway, molto vicino allo stile delle cosiddette “miniature” d’inizio carriera (confluite ne I quarantanove racconti, 1938). Alla domanda di Gil sul timore d’essere ucciso, ecco la risposta: «Non scrivi mai bene se hai paura di morire. […] Beh, è una cosa che a tutti prima di te è successa e a tutti succederà. […] Hai mai fatto l’amore con una vera meraviglia di donna? […] E quando fai l’amore con lei, senti una vera e bellissima passione, almeno per quel momento dimentichi la paura della morte? […] Io penso che l’amore vero, autentico crei una tregua dalla morte. La vigliaccheria deriva dal non amare o dall’amare male, che è la stessa cosa. E quando un uomo, che è vero e coraggioso, guarda la morte dritta in faccia, come certi cacciatori di rinoceronti o come Belmonte, che è davvero coraggioso, è perché ama con sufficiente passione da fugare la morte dalla sua mente. Finché lei non ritorna, come fa con tutti. E allora bisogna di nuovo far bene l’amore. Devi pensarci». 

Se ci restano vivide testimonianze di quei mesi è (anche) grazie al postumo Festa mobile (1964), nel cui capitolo La fame era un’ottima disciplina scrive: «[P]otevi sempre entrare al museo del Luxembourg e tutti i quadri erano più intensi e più chiari e più belli se eri a pancia vuota con la fame da lupo. Io imparai a capire Cézanne molto meglio e a vedere precisamente come faceva i paesaggi quando avevo fame. Mi domandavo sempre se anche lui non fosse affamato quando dipingeva; ma pensavo che era possibile che si fosse soltanto dimenticato di mangiare. Era uno di quei pensieri assurdi ma illuminanti che ti vengono quando non hai dormito oppure sei affamato. Più tardi pensai che Cézanne probabilmente era affamato in un altro senso». 

Hemingway non c’è più: c’è quel che ha pubblicato. E quel che di lui ha detto e scritto chi l’ha amato (o detestato). Ma dopo l’anno e mezzo che chiunque ha dovuto attraversare, tornarci può avere (almeno) un valido perché: (forse) abbiamo guardato la morte dritta in faccia, (forse) non stiamo amando o stiamo amando male, ma (di certo) quella “fame” è ancora qui, intatta.

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