C’è un passaggio del bilancio che Giorgia Meloni ha tratteggiato al Tg1 del primo anno di governo che ha colpito: l’ammissione che sull’emergenza migranti si poteva fare di più. È l’unica ammissione di un obiettivo fallito, in mezzo alla rivendicazione delle scelte politiche compiute in materia di stop al reddito di cittadinanza, al ridimensionamento del superbonus e al rilancio dell’economia.
È come se la Meloni avesse voluto giocare d’anticipo rispetto ai critici. Contemporaneamente, però, è l’ammissione delle difficoltà in cui si dibatte il governo, nel momento in cui si sta scrivendo la manovra economica: questa settimana con la Nadef si vedranno finalmente i primi numeri veri. Manovra economica e immigrazione sono due punti caldi del rapporto non precisamente idilliaco fra il governo di centrodestra e l’Unione Europea. Non gli unici, ma i più delicati.
Sull’immigrazione troppe parole e pochi fatti. E per di più uno scarto incredibile fra le dichiarazioni dei vertici comunitari e il comportamento dei singoli Stati. Di fronte all’ultima ondata di sbarchi a Lampedusa ha impressionato la chiusura a riccio dei partners europei: tutti, in un modo o nell’altro, hanno rifiutato di condividere il peso. In cima alla lista Germania e Francia.
Con Berlino la tensione è salita alle stelle, nonostante la idilliaca due giorni siciliana dei due capi di Stato, Mattarella e Steinmeier. Il nostro presidente è andato dritto al sodo nella conferenza stampa finale: per l’Italia le regole di Dublino sono preistoria, non possono essere i Paesi di primo approdo a reggere tutto il peso della spinta migratoria, quello poteva avvenire in un’altra era geologica, quando i flussi non erano così intensi. Posizione totalmente coincidente con Palazzo Chigi. Purtroppo, nonostante le parole concilianti di Steinmeier (“Non possiamo lasciare sola l’Italia”), il governo di Berlino, dello stesso colore politico del presidente federale, si sta muovendo in direzione diametralmente opposta: stop al meccanismo di ricollocamento volontario dei richiedenti asilo (un migliaio di migranti prese in carico dalla Germania nell’ultimo anno) sino a che l’Italia non si deciderà a rispettare alla lettera proprio il trattato di Dublino.
Purtroppo con la regola dell’unanimità che vige nella Ue modificare Dublino si presenta come una missione praticamente impossibile. Per qualunque governo italiano è come combattere contro i mulini a vento. Ci si aggiungano le polemiche fra il ministero degli Esteri tedesco e il titolare della Difesa, Crosetto, sul finanziamento da parte delle istituzioni di Berlino delle Ong che operano nel Mediterraneo, viste da Roma come un fattore di attrazione di nuove partenze.
E non è che con la Francia le cose vadano meglio rispetto alla Germania, visto il tentativo in corso di sigillare le frontiere, rispedendo in Italia chi cerca di arrivare in terra transalpina perché lì ha già affetti, per presentare lì, e non in Italia, la richiesta di asilo.
Un esile filo di speranza, in larga parte inatteso, è stata l’apertura di Macron, che ha ripetuto l’ormai trita e ritrita frase “non possiamo lasciare l’Italia da sola”, accompagnandola però con la proposta di collaborare ad aumentare gli aiuti ai Paesi di partenza e a quelli di transito, subordinando il sostegno europeo a una politica di concreto contrasto delle reti criminali di trafficanti di esseri umani. Un discorso in diretta tv che sembra segnare un cambio di passo. Ma, ancora una volta, è tutto da verificare se alle parole poi seguiranno fatti concreti.
Se Dublino non si può cambiare, almeno a breve, allora l’unica strada è mettere in campo un vero piano europeo per l’Africa. Che si chiami “Piano Mattei” o in altro modo, poco cambia. Ma la burocrazia di Bruxelles deve tenere il passo degli impegni: la prima tranche dei finanziamenti promessi alla Tunisia è stata sbloccata solo venerdì scorso, e rappresenta meno della metà della cifra promessa a Saied dalla Von der Leyen.
Per Meloni la partita migranti rischia di diventare la più delicata, anche perché la Lega scalpita, spingendo per una linea più dura e decisa, lamentando la marginalizzazione di Piantedosi. Senza risultati, la premier ha capito che avrà notevoli grattacapi a giustificarsi davanti all’opinione pubblica.
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