“No borders, no problems”, ha scritto qualcuno su un muro di Ventimiglia: nessun confine, nessun problema. Non è di questo avviso Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’Istat, ordinario di demografia nell’Università di Milano Bicocca. “Nel momento in cui esiste una nazione – e una nazione, piaccia o no, esiste, a cominciare dalla nostra – essa non può e non deve subire i flussi. Deve essere in grado di armonizzarli, diciamo pure di governarli”.
Per capire quanti stranieri possiamo accogliere non basta mettere un numeratore su un denominatore e confrontare il rapporto con quello degli altri Paesi, dice Blangiardo al Sussidiario. Perché parliamo di persone. Dunque di culture differenti.
Due i luoghi comuni da sfatare: il primo, che aprire i porti possa risolvere il problema delle “culle vuote”. L’altro, che più migranti siano la risposta ai lavori che non vogliamo più fare.
Presidente, cosa ci dicono i numeri?
Che l’Italia sia il molo e la via di accesso più facile per chi vuole venire in Europa e cerca una soluzione conveniente, anche dal punto di vista dei costi, è un dato di fatto. Lo dice il cruscotto statistico del Viminale.
E gli altri Paesi europei?
La Germania accoglie molto. Lo ha fatto durante la guerra di Siria e lo ha fatto adesso con la guerra in Ucraina. Ma il profilo degli arrivi è nettamente diverso, perché noi siamo molto più esposti verso l’Africa, i tedeschi verso i confini orientali europei. Rotta balcanica compresa.
La Spagna?
Vive episodi sporadici di assalti alle enclaves di Ceuta e Melilla. Fenomeni che si concentrano praticamente in un solo punto geografico e pertanto non difficili da gestire. Completamente diverso è il caso della Francia.
Per quale motivo?
Era candidata dalla sua stessa storia coloniale ad essere un Paese con una forte presenza nordafricana, in prevalenza algerina e marocchina. La Francia è stata per le ex colonie ciò che ha rappresentato per il nostro Sud la Svizzera negli anni del boom economico. Anche la densità di popolazione straniera o di background straniero i Francia non è elemento paragonabile a quello che vale per l’Italia, la Spagna o la stessa Germania.
Ha parlato di “densità”: un termine che evoca il rapporto tra gli arrivi e la capacità di accoglienza. Fino a che punto possiamo farci carico dei flussi in arrivo?
Qui bisogna fare attenzione. Non possiamo limitarci al rapporto tra gli arrivi e la popolazione residente e fare paragoni con Paesi diversi dal nostro per popolazione, tessuto economico, storia, struttura della società. La capacità di accoglienza non è solo questione di numeratore e denominatore.
E allora da che cosa dipende?
Dipende essenzialmente da “chi” c’è al numeratore e al denominatore. Come è fatto il Paese? Chi siamo noi? E qual è la “qualità” di chi arriva? Non è una questione economica, è culturale.
Ci spieghi meglio.
La lingua è fondamentale. Per marocchini e algerini è molto più facile andare in Francia che venire da noi. Come può inserirsi in fretta chi viene dalla Cina, dall’India, dal Bangladesh o dal mondo arabo? Una volta arrivato in Italia deve prima imparare la lingua. Solo allora comincia il processo di integrazione.
La sua sembra un’integrazione molto selettiva. Siamo o non siamo un Paese accogliente?
Lo siamo eccome. Accogliamo più di altri ed è un fatto dovuto alla nostra tradizione cattolica. Superiamo molto rapidamente la separazione iniziale con un atteggiamento di apertura di cui ci sono conferme ovunque, se ci guardiamo intorno. Ci viene facile “adottare” lo straniero, farlo sentire a casa. Ma l’accoglienza non è l’integrazione.
Secondo lei che cos’è?
Un fatto multidimensionale. L’integrazione è sempre il concorso di diversi fattori: casa, lavoro, interazione con gli altri, lingua, anche religione.
La provvisorietà dei nordafricani e i quartieri cinesi nelle nostre città o in alcuni distretti produttivi sono mondi completamente diversi.
Sono d’accordo. Però nel caso di via Sarpi a Milano e di tanti altri il punto debole è la separazione: un mondo nel mondo. La vera integrazione a mio avviso sta nell’appartenenza alla comunità che accoglie, nel sentirsene gradualmente parte. Non nel creare un mondo parallelo.
Altrimenti?
Altrimenti ci sono due regole del gioco, due insiemi di valori da rispettare, non uno. E non è detto che non entrino in conflitto.
L’entità degli arrivi deve indurci a cambiare le leggi per ottenere la cittadinanza italiana?
L’emigrazione è un fenomeno naturale, c’è sempre stata e ci sarà sempre, ma nel momento in cui esiste una nazione – e una nazione, piaccia o no, esiste, a cominciare dalla nostra – essa non può e non deve subire i flussi. Deve essere in grado di armonizzarli, diciamo pure di governarli. Non possono arrivare in Italia un milione di persone e imporre da domani di cambiare modello.
Qual è l’alternativa?
Quella di un processo graduale e virtuoso. Arrivi, ti integri, e poiché siamo un Paese democratico, sei libero di esprimerti e di costruire un consenso abbastanza ampio da permettere, volendo, di cambiare le leggi. Questo mi pare il processo che una democrazia deve far rispettare.
Lo ius soli?
È soltanto una bandiera politica.
Dunque non serve. Perché?
Lo dicono i fatti. C’è un 40% di giovani che diventano italiani secondo quanto previsto dall’articolo 14 della legge 91/1992. È l’acquisizione della cittadinanza per trasmissione: quando un genitore diventa italiano, i figli a carico acquisiscono la cittadinanza italiana. Non solo: “divenuti maggiorenni, possono rinunciarvi, se in possesso di altra cittadinanza”, dice la legge.
Eppure non se ne parla; sembra che questa legge non esista.
Sono uno dei pochi che va in giro a dirlo, e quando lo faccio trovo gente meravigliata. Non la conoscono. Forse vien comodo tacerla. Ma è una buona legge: il minore, tutelato e protetto dalla famiglia, segue le sorti del nucleo familiare. Grazie a questa legge siamo uno dei primi Paesi in Europa per concessione della cittadinanza. Battiamo perfino i tedeschi.
Diventiamo un paese sempre più vecchio. L’immigrazione può risolvere il problema delle nostre “culle vuote”?
È evidente che se arrivano 500mila persone di 30 anni ringiovaniscono la popolazione. Però è anche evidente che rimanendo in Italia – come è giusto che sia, se sono persone integrate – un giorno saranno gli anziani di domani. Quindi il ringiovanimento via immigrazione è una boccata di ossigeno, ma non la soluzione. E attenti alle controindicazioni.
Quali sarebbero?
Come Istat sappiamo quanti saranno i nuovi 60-65enni da qui ai prossimi 40-50 anni. Mettendo in relazione ogni anno i nuovi 65enni con il numero di nati in Italia 65 anni prima, emerge a colpo d’occhio che fino ad un certo punto, diciamo fino ad oggi e ancora per qualche anno, a seguito della mortalità e della nostra emigrazione ci sono e ci saranno meno 65enni che entrano nell’età pensionistica rispetto a quanti sono nati in Italia 65 anni prima. Ma poi tra poco il rapporto si ribalterà: diventeranno pensionati molti residenti che non sono nati in Italia, con un divario tra i due valori che si accresce nel tempo.
È il fattore immigrazione?
Infatti. Per altro rischiamo di avere centinaia di migliaia di persone che entrano ogni anno nel sistema pensionistico con una storia contributiva debole, ad esempio 10-15 anni di contributi, e con la necessità di avere una qualche forma di integrazione per avere una pensione dignitosa. È un fattore che può far esplodere qualsiasi sistema previdenziale, figuriamoci il nostro.
Torniamo alla natalità.
Nel 2012 c’erano 80mila nati, ma nel 2011, con un milione di stranieri in più, i nuovi nati sono stati 59mila. Significa che gli stranieri vivono le stesse criticità della nostra situazione. Se non in misura maggiore, perché non hanno neppure il paracadute dei rapporti familiari – penso ai nonni – così prezioso quando i genitori lavorano.
Allora che cosa serve per invertire il trend?
Innanzitutto una cultura diversa, che faccia capire il senso profondo dell’essere padre e madre. Un senso che abbiamo smarrito. E poi una serie di provvedimenti a sostegno della genitorialità. Chi fa figli non può essere visto come un marziano o un sospetto, ma quasi come un eroe. Non ha bisogno di una medaglia, ma di essere aiutato economicamente e di sentire che la comunità gli è vicino.
La rappresentazione a piramide per fasce di età della nostra popolazione parla chiaro. E dice che servono più migranti per svolgere i lavori che non vogliamo più fare. Come la mettiamo?
Le nostre previsioni dicono che da qui al 2070 saremo senza 11 milioni di potenziali lavoratori (fascia 20-66 anni). Per rispondere al ridimensionamento del potenziale produttivo del Paese servono quantità e qualità. Oltre ai processi di maggior efficienza che si possono attivare, dobbiamo aumentare la partecipazione: quella femminile in Itala è bassissima. L’immigrazione è una leva possibile, ma non è la soluzione. E il motivo è semplice.
È l’integrazione?
Esatto. Non possiamo integrare un milione di persone l’anno. Le previsioni Istat che mostrano il deficit di cui ho detto già contemplano un contributo netto al sistema lavorativo di 130mila immigrati l’anno. Perderemo 11 milioni di persone in età lavorativa nonostante questo contributo annuale di lavoratori stranieri. Per compensare con gli arrivi i lavoratori mancanti, ai 130mila annui dovremmo aggiungerne più di 200mila. Vorrebbe dire oltre 350 unità nette che si aggiungono ogni anno, un dato che a mio avviso qualche problema di integrazione lo va a porre.
Secondo lei qual è la soluzione?
Programmare. Mai come in questo caso è un sinonimo di governare. E le quantità, laddove non sono governate, recano danni che hanno un costo, economico e sociale.
Un’ultima domanda sugli sbarchi, suggerita da quegli ipotetici oltre 350mila nuovi arrivi. Chi entra nel perimetro della vostra misurazione e chi resta fuori?
Gli sbarcati si dividono in due categorie: quelli che hanno vere motivazioni per avere un permesso di protezione e coloro che non ce l’hanno. Questi ultimi, una volta in Italia, se lasciano i luoghi di raccolta non si sa dove finiscono. I primi a loro volta si dividono in due gruppi: quelli ai quali viene concesso il permesso e quelli ai quali viene negato. I primi hanno un titolo di soggiorno, con il quale possono inserirsi ne sistema lavorativo. E noi siamo in grado di contarli.
E gli altri, quelli che fanno domanda ma non ottengono il permesso?
Possono rimanere in Italia, andarsene, ma non sappiamo altro. Si sa quanti sono i dinieghi, ma non si sa che fine fanno i “diniegati”.
(Federico Ferraù)
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.