L’applauso della segretaria Pd Elly Schlein per la decisione della magistratura di “liberare” – alla stregua di “ostaggi” – gli immigrati trasferiti dall’Italia in Albania ha confermato la tendenza anti-democratica della sinistra italiana, che si è ridotta a una totale subalternità alla magistratura avendo perduto da tempo la capacità di affermarsi nel Paese come maggioranza al voto. Non è la prima volta che – in questo spazio – segnaliamo la narrazione preoccupante secondo cui “le magistrature” (costituzionale, ordinaria, amministrativa, contabile, tutte sotto la stretta vigilanza istituzionale del Quirinale) sarebbero la vera e sistematica sede d’appello delle decisioni del governo; che invece – secondo la Costituzione – risponde del proprio operato solo al Parlamento. I magistrati, invece, intervengono ormai a orologeria – esemplarmente sul terreno interno/esterno dei flussi migratori – richiamandosi puntualmente a “diritti” più o meno reali, in situazioni politicamente concretissime, con l’esito oggettivo – se non con la finalità – di contrastare l’azione dell’esecutivo. E non è un caso che i “diritti” – quelli dei migranti sempre prima di quelli dei cittadini italiani, non solo alla sicurezza – siano il mantra del Pd: ideologico, prima che politico. Puntualmente controbattuto al voto.



Ma non è certo di ieri l’assioma dell’ex pm siciliano Antonino Ingroia, per il quale “compito della magistratura è quello di correggere gli errori della democrazia”. Proprio in Sicilia, proprio in questi giorni, il vicepremier Matteo Salvini sta affrontando il processo per i ripetuti stop all’attività delle navi delle Ong da lui ordinati cinque anni fa, quando era vicepremier e ministro dell’Interno. Il passaggio più noto è quello che vide gli inquirenti isolani non incolpare di nulla la “capitana Rackete” che aveva violato gli ordini del governo sulla protezione degli confini europei esterni e aveva assaltato militarmente il porto di Lampedusa. Ben prima che diventasse europarlamentare – compagna di banco di Ilaria Salis – è stata la magistratura italiana a concederle motu proprio un’immunità di fatto: un diritto a non rispettare le direttive legali del governo italiano in nome di presunti diritti dei migranti e delle Ong. L’imputato è così diventato il vicepremier in carica nell’esercizio delle sue funzioni (allora leader del partito che aveva ottenuto un successo schiacciante al voto europeo). Oggi, insieme al vicepremier, lo è pure il presidente del Consiglio in carica, leader del primo partito italiano alle politiche nazionali e alle ultime europee.



Nel frattempo Schlein ha “ordinato” al governo di far tornare immediatamente gli “ostaggi” dall’Albania, chiedendo loro scusa. Peccato che la stessa leader “dem” abbia preso parte più o meno tacitamente a cortei e attendamenti anti-israeliani: tutt’altro che tacitamente in appoggio ai palestinesi, in qualche caso invocando espressamente Hamas: cioè il movimento terroristico che da 378 giorni tiene in ostaggi ancora 100 israeliani (metà dei quali sarebbero già morti) dopo averne assassinati altri. Non si è mai sentita Schlein protestare a voce alta contro Hamas e pretendere la liberazione di quegli ostaggi (veri) e neppure contro il governo israeliano, che si è sempre spietatamente disinteressato della sorte – dei “diritti” – dei suoi cittadini in ostaggio. Non si sente mai il Pd odierno richiamare le posizioni dell’ultimo ministro dell’interno dem, Marco Minniti: cui era chiaro che dietro i flussi e i trafficanti di migranti c’erano – anche, soprattutto – regimi e milizie dell’Africa settentrionale e centrale. C’erano – e ci sono – le crescenti pressioni geopolitiche di Russia, Cina, islam nel continente nero.



Dalla figlia di un politologo americano israelita, da un’attivista delle campagne elettorali del Nobel per la pace Barack Obama (con Joe Biden vice) sarebbe stato lecito attendersi altro: magari anche un’attenzione alla piattaforma elettorale della candidata dem Kamala Harris, anzi sulle scelte  – tutt’altro che attente ai “diritti” – della vicepresidente Harris, delegata negli ultimi quattro anni alla gestione della crisi migratoria alla frontiera messicana.

Ma forse sarebbe sufficiente che Schlein leggesse i media occidentali sugli orientamenti di governi e super-governi su un’emergenza migrazioni ormai globale, anche sulla scia della crisi geopolitica. La Ue stessa – piuttosto che i nuovi governi di Francia e Gran Bertagna – stanno seriamente guardando al “modello Albania” per una nuova fase della gestione della crisi migratoria. E il nuovo governo polacco di Donald Tusk – dacantato come “antifascista” da tutte le sinistre europee e ora invece convergente sulle posizioni dell’ungherese Viktor Orbán – ha appena ottenuto dalla Ue la sospensione del diritto di asilo per coloro che volessero lasciare Russia e Bielorussia: troppo alto il rischio di destabilizzazione polacca – ed europea –, dopo che già un milione e mezzo di ucraini si sono rifugiati nell’Unione.

A proposito: la decisione (politica) del governo italiano di appoggiare la Nato sul fronte russo-ucraino può forse essere subordinata al giudizio di ultima istanza di un magistrato romano o siciliano? O magari della Corte costituzionale, che su ricorso di una Ong pacifista attiva in Ucraina potrebbe rammentare in via tassativa a Palazzo Chigi il “ripudio della guerra” affermato dall’articolo 11 della Carta; o raccomandare per Kiev un referendum popolare a tutela delle minoranze ucraine contrarie alla guerra di Volodymyr Zelensky.

Ieri intanto la senatrice a vita Liliana Segre ha voluto nuovamente ribattere ai cartelli che l’hanno attaccata come “agente sionista”, promettendo di vestirsi da 007 al compimento dei 100 anni. Ha colto l’occasione per ribadire di trovare “assurdo che gli ebrei della diaspora siano considerati responsabili di quel che succede in Israele”. Siamo naturalmente fra i molti che augurano alla senatrice di festeggiare il secolo di vita, di mantenere lo humour espresso verso i suoi contestatori e di continuare a condurre la sua alta testimonianza della Shoah. Ma sull’atteggiamento degli “ebrei della diaspora” (meno distaccati della senatrice e anche in Italia quasi sempre a favore di Gerusalemme) il punto di vista non sembra convincere.

Quando il governo Netanyahu ha apertamente accusato l’Onu o la Corte Penale Internazionale di “antisemitismo” ha chiaramente brandito in via strumentale la Memoria di Auschwitz per giustificare la distruzione di Gaza, le 40mila vittime civili, la trasformazione in profughi di milioni di palestinesi (compresi quelli cacciati dai coloni israeliani dai territori in Cisgiordania) e l’ennesima invasione del Libano. È accaduto lo stesso nel divampare delle proteste nelle università americane: represse in nome della lotta all’“antisemitismo” che – sia secondo la Casa Bianca sia secondo Donald Trump – sarebbe stato intrinseco ai moti anti-israeliani. Ancora lo scudo etico “assoluto” della Shoah (avvenuta ottant’anni fa in Europa) calato a protezione di situazioni contemporanee squisitamente politiche, altrove, ossia il voto presidenziale in Usa, oltre alla crisi in Medio Oriente. Con in campo uno Stato ebraico governato da partiti di estrema destra nazionalista-religiosa, accusati anche in patria di mire autoritarie e di suprematismo israelita. Con un premier che ha imposto al Congresso Usa di aprirgli le porte per parlare senza contraddittorio, decretando così il ritiro del presidente in carica dalla corsa alla rielezione, cestinando la decisione democratica dalle primarie “dem”. La Memoria della Shoah può dar diritto al premier israeliano di interferire nella più grande e antica democrazia occidentale? Per moralizzare un effetto-leva elementarmente politico attraverso finanza, media, università?

In Italia è avvenuto il contrario: grazie anche all’intervento del Quirinale a favore della libertà di pensiero e parola dei giovani, le manifestazioni anti-israeliane si sono potute svolgere abbastanza liberamente (almeno fino al divieto di due settimane fa in occasione dell’anniversario del 7 ottobre). E hanno finito per prendere di mira – senza giustificazione – anche la senatrice Segre. Però fra le migliaia di giovani che sono scesi in piazza o hanno occupato i campus ve n’erano molti cresciuti negli anni in cui la celebrazione della Giornata della Memoria è divenuta solenne anzitutto nei calendari scolastici. Se oggi quegli stessi studenti pongono qualche domanda – talora con modalità discutibili – è forse anche perché hanno preso sul serio la lezione impartita loro: quella sul genocidio nazista degli ebrei come “male assoluto della storia”. Loro per primi – quasi alla vigilia della Giornata della Memoria 2025 – attendono ora parole chiare: ciò che è avvenuto ad Auschwitz fino al 27 gennaio 1945 c’entra o no – e semmai come – con quanto accaduto a Gaza il 7 ottobre 2023 e nei dodici mesi seguenti? Perché nel 2024 (speriamo non più nel prossimo gennaio) israeliani e palestinesi hanno continuato a massacrarsi a vicenda, come dal 1948 in poi?

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