Nel recente intervento presso il Parlamento europeo, la presidente Ursula von der Leyen ha utilizzato parole forti per sottolineare l’intenzione della Commissione di proporre agli Stati membri di riformare il Trattato di Dublino in materia di immigrazione. In termini provocatori, secondo la traduzione riportata sui mass media, esprimendo la volontà di abolire il Trattato in questione.
Che un proposito di questo genere si possa verificare, è lecito dubitare. Se non altro perché le tre intese di Dublino, finalizzate a regolare i diritti dei migranti richiedenti asilo, gli obblighi relativi all’accoglienza e alla verifica dei requisiti degli interessati da parte dei Paesi di primo ingresso, e le condizioni per la loro circolazione tra i Paesi europei aderenti, sono il riflesso di altri Trattati internazionali tuttora vigenti: quello di Ginevra del 1951 e il protocollo sottoscritto a New York nel 1967.
Come noto, l’esigenza di riformare il Trattato di Dublino fa leva sulla richiesta di alcuni Paesi mediterranei, in particolare l’Italia e la Grecia, di introdurre dei vincoli di solidarietà tra gli Stati aderenti all’Ue per fronteggiare i flussi crescenti di immigrati irregolari e per redistribuirne il carico, in termini di accoglienza e di integrazione sociale, sulla base di criteri codificati e obbligatori. Sono innovazioni che comporterebbero un mutamento radicale dell’ottica che ha informato la nascita e l’evoluzione dei Trattati di Dublino, e cioè la regolazione interna dei flussi migratori degli immigrati richiedenti protezione internazionale, sulla base di reciprocità, fermo restando l’obbligo primario dei Paesi di prima accoglienza di registrare i migranti, verificare i requisiti, integrare gli aventi diritto, e rimpatriare gli altri immigrati irregolari.
Lo spirito delle intese è primariamente segnato dal divieto della libera circolazione dei richiedenti protezione, con alcune limitate eccezioni per i casi specifici riguardanti i minori e le ricongiunzioni familiari. Sino a prevedere la possibilità degli altri Paesi di disporre il ritorno in quelli di primo ingresso, qualora i migranti in questione si siano nel frattempo trasferiti sul loro territorio.
Non sempre questo aspetto viene colto nella sua portata generale. Cioè di una materia, quella dell’immigrazione e della regolazione dei flussi di ingresso di nuovi immigrati, che è sempre stata, e continua a essere, gelosamente ritenuta come una prerogativa esclusiva degli Stati nazionali. Infatti, sulla materia l’ambito privilegiato di intervento delle istituzioni europee rimane ancorato all’emanazione di direttive in materia di accesso ai diritti sociali da parte dei migranti, non di rado prevedendo delle clausole di esclusione per i singoli Paesi che lo richiedono, alla promozione di fondi per il sostegno finanziario delle attività di integrazione promosse dagli Stati nazionali, e per la gestione delle regole della circolazione per i migranti regolarmente soggiornanti in ambito europeo.
Tutte queste premesse sono importanti per comprendere qual è la posta in gioco di un’eventuale riforma del Trattato che propone di far interagire in presa diretta le istituzioni dell’Ue con le politiche per la programmazione e la gestione dei flussi migratori.
In prima istanza, nessun Paese sembra negare la necessità di rafforzarne il ruolo. È del tutto evidente l’attuale debolezza delle istituzioni nazionali nel fronteggiare i flussi anomali dell’immigrazione irregolare: sul fronte del contrasto e del controllo, della capacità di accoglienza, per il rimpatrio verso i Paesi d’origine dei migranti ai quali è stata respinta la domanda per assenza di requisiti.
Ma questo consenso generale fatica a trasformarsi in un sostegno al trasferimento delle competenze in materia dell’immigrazione presso le istituzioni dell’Ue, che comporta l’accettazione di vincoli eterodiretti da parte delle stesse. Questo non solo per l’evidente difficoltà di raggiungere l’unanimità dei consensi tra gli Stati membri come condizione indispensabile per riformare i Trattati internazionali, ma perché le resistenze interne dei singoli Paesi sono motivate anche dalle oggettive diversità dei mercati del lavoro e degli specifici fabbisogni di attrazione dei migranti, tenendo conto che buona parte di questi flussi sono generati da esigenze di natura economica.
Questo comporterà in partenza la conferma della delimitazione del perimetro di intervento del nuovo Trattato alla sola condizione dei migranti per i quali è stato riscontrato il diritto di ottenere un permesso di soggiorno per motivi di protezione internazionale, e l’esclusione di qualsiasi meccanismo di redistribuzione obbligatorio degli stessi tra gli Stati aderenti al Trattato. Due condizioni che comportano inevitabilmente delle conseguenze per il nostro Paese, dato che la gran parte dei flussi irregolari che ci riguardano sono di natura economica, e nella qualità di Stato aderente che, insieme ad altri, si è battuto strenuamente per affermare il principio della redistribuzione obbligatoria.
Questi limiti sono destinati a trasformare la riforma in un potenziamento dei soccorsi attivi delle istituzioni europee verso i Paesi esposti ai flussi di ingresso irregolari, con iniziative di rafforzamento delle reti di contrasto e di controllo degli ingressi illegali, di sostegno economico per i costi dell’accoglienza e di integrazione dei rifugiati, e di intervento attivo per la promozione di accordi con i Paesi d’origine per le iniziative di cooperazione economica, di contrasto alla migrazione irregolare, ivi compresa l’accettazione dei rimpatri dei loro cittadini che non hanno ottenuto il riconoscimento di rifugiati. Infatti, dalle prime indiscrezioni, questo è l’approccio che dovrebbe caratterizzare la proposta che la Commissione si accinge a presentare.
Tuttavia sarebbe un grave errore sottovalutare l’importanza di queste novità. Perché le stesse comportano di conseguenza una scelta di campo delle istituzioni europee in materia di accoglienza dei profughi, e nell’utilizzo delle risorse. Una scelta che impegna in presa diretta il ruolo delle istituzioni europee nelle iniziative di politica estera, di sicurezza e di integrazione dei migranti, a sostegno dei Paesi aderenti che devono far fronte a flussi straordinari o disponibili, anche in forma cooperativa con altri, a mettere in campo interventi strutturali per ottimizzare la gestione dei flussi migratori. Un intervento comunque destinato a segnare una profonda evoluzione nelle politiche per l’immigrazione dell’Unione Europea.
Proprio per questo motivo non lo si deve dare per scontato. Esso si scontra con valutazioni diffuse all’interno dei Paesi aderenti, ben oltre quelli baltici e dell’est Europa tradizionalmente ostili, che ritengono che queste politiche anziché favorire una gestione controllata dei flussi irregolari, finiscano per incentivare un effetto attrazione dei migranti economici verso l’Europa. Una posta in gioco molto alta, destinata a condizionare i dibattiti interni in tutti i Paesi aderenti.