Dal vertice dei capi di governo aderenti all’Ue, riuniti nella due giorni di Bruxelles, non emerge nessun passo significativo nella direzione della riforma del Trattato di Dublino. L’evoluzione degli scenari internazionali, in particolare le conseguenze del drammatico abbandono dei presidi occidentali nell’Afghanistan, hanno complicato ulteriormente la possibilità di condividere la gestione dei flussi migratori non programmati tra i Paesi aderenti e spostato l’attenzione verso le azioni di contrasto dei flussi migratori non programmati e di tutela delle frontiere.
Il recente documento sottoscritto da dodici Paesi aderenti, quelli dell’Est europeo con l’aggiunta di Austria, Danimarca, Cipro e Grecia, invoca persino la costruzione di barriere fisiche per contrastare i nuovi flussi di immigrazione. Una posizione certamente discutibile, ma che ha condizionato l’evoluzione del dialogo interno e, per certi aspetti, rimesso in discussione i passi in avanti condivisi nel precedente Consiglio europeo del 25-26 giugno u.s.. In particolare quelli rivolti a rafforzare le iniziative delle Istituzioni dell’Ue nella direzione di sottoscrivere degli accordi con i Paesi di origine e di transito dei migranti con una dotazione di 8 miliardi di euro del Fondo europeo per la cooperazione e lo sviluppo (Ndci) finalizzati a sostenere i programmi di cooperazione, di contenimento dei flussi migratori e di rimpatrio dei migranti privi dei requisiti di protezione internazionale. Significativo il fatto che il documento finale, pur ribadendo l’importanza di queste intese, e la sollecitazione a promuoverle da parte della Commissione, enfatizzi il rischio di un utilizzo strumentale e ricattatorio dei flussi migratori, particolarmente manifesto nei comportamenti della Turchia e della Bielorussia.
Gli orientamenti assunti nella riunione di fine giugno erano stati sollecitati in particolare dall’iniziativa assunta dal nostro Presidente del Consiglio Mario Draghi, per l’obiettivo di rafforzare il ruolo delle Istituzioni europee in materia di politiche per l’immigrazione con una visione di medio e lungo periodo.
Il cambio di scenario ha penalizzato questo orizzonte. Nel comunicato finale vengono chiaramente evidenziate le priorità di intervento per l’area mediorientale (Turchia, Libano, Giordania, Egitto). La solidarietà tra i Paesi aderenti nella gestione dei flussi non programmati viene genericamente auspicata nella parte finale del comunicato. L’oggettiva difficoltà di trovare una sintesi condivisa sul tema della redistribuzione dei migranti richiedenti protezione sulla base di criteri vincolanti tra i 27 Paesi aderenti all’Ue dovrebbe consigliare la ricerca di soluzioni ragionevoli che consentano di fare dei passi in avanti per riformare il Trattato di Dublino in materia di immigrazione.
Sono in troppi, soprattutto in Italia, a trascurare il fatto che le tre intese di Dublino trovano origine soprattutto dalla necessità di fornire agli Stati aderenti una comune interpretazione del trattato internazionale di Ginevra relativo agli obblighi di accoglienza dei migranti per motivi di asilo e di protezione internazionale nei Paesi di primo approdo, per la verifica dei requisiti per il rilascio dei permessi di soggiorno ai migranti, e regolare di conseguenza anche l’ambito della circolazione dei profughi all’interno dei Paesi aderenti.
Una scelta che delimita le competenze delle istituzioni europee alla corretta verifica dell’attuazione dei trattati in questione, alle iniziative di supporto degli interventi degli Stati nazionali per l’accoglienza dei migranti, nella gestione dei fondi europei per l’integrazione delle persone coinvolte.
Nell’ambito dell’emanazione delle direttive in materia di armonizzazione dei diritti sociali delle legislazioni nazionali sono state varate numerose direttive che riguardano in modo diretto o indiretto i diritti dei migranti, ferme restando le prerogative degli Stati nazionali sulla materia della regolazione dei nuovi ingressi e della definizione dei requisiti di permanenza nel territorio nazionale dei migranti.
La questione primaria sul tappeto diventa pertanto quella di stabilire se, e in quali ambiti di intervento, conferire nuove competenze alle Autorità dell’Ue. Una decisione che richiede il consenso unanime dei Paesi aderenti.
Nella proposta avanzata dalla Commissione europea questo rafforzamento riguarda le Istituzioni della Ue che si dovrebbero occupare in presa diretta: delle azioni di contrasto dell’immigrazione irregolare presso le frontiere; di verifica dei requisiti di protezione internazionale dei migranti ovvero dei rimpatri di coloro che ne sono privi; della promozione di accordi di cooperazione e di contrasto dell’immigrazione irregolare con i Paesi d’origine, promosse d’intesa con gli Stati nazionali interessati; della redistribuzione dei migranti richiedenti protezione tra i Paesi aderenti in base agli accordi che saranno promossi su base volontaria.
Su questi 3 punti si riscontrano convergenze a geometria variabile tra i vari Paesi. Sulla richiesta avanzata dall’Italia di rendere obbligatoria la redistribuzione dei migranti si riscontra l’indisponibilità del blocco dei Paesi dell’Est, dell’Austria e della Danimarca. La gran parte degli altri Paesi aderenti, in particolare quelli del centro-nord Europa, condizionano la disponibilità ad accettare la redistribuzione dei migranti previa verifica dei requisiti di protezione internazionale. Una condizione che di fatto vanifica la disponibilità offerta data la impossibilità di trasferire i migranti per motivi economici che rappresentano la maggioranza di quelli sbarcati nel Mediterraneo.
Queste condizioni rendono impraticabile un’evoluzione dei trattati sulla base delle richieste avanzate dal nostro Paese. Richieste in buona parte ribadite, per onor di Patria, dal presidente del Consiglio Draghi nel recente intervento al Parlamento. Ma siamo sicuri che l’impostazione italiana corrisponda effettivamente agli interessi del nostro Paese?
Una verifica attenta dei dati sull’accoglienza effettiva su base pluriennale del numero dei profughi nei Paesi aderenti all’Ue mette in evidenza che l’eventuale redistribuzione su base obbligatoria comporterebbe un aumento del numero dei rifugiati da accogliere in Italia.
Altre rivendicazioni, ad esempio quella di prevedere delle quote legali di ingresso per evitare quelli irregolari, risultano prive di logica. A quanti Paesi dovrebbero essere offerte queste quote? E per quali fabbisogni del mercato del lavoro, dato che il flusso degli ingressi irregolari interessa una molteplicità infinita di Paesi di origine e con motivazioni che sono indipendenti dalle previsioni delle autorità nazionali?
Questo non esclude affatto che negli accordi bilaterali o multilaterali queste soluzioni possano essere ponderate, altrettanto come la possibilità di costruire azioni coordinate con gli altri grandi Paesi di accoglienza per gli accordi con i Paesi d’origine, e per la redistribuzione dei profughi, con il patrocinio delle Istituzioni europee e con le risorse dei fondi comunitari. L’interesse del nostro Paese, per la particolare esposizione nell’area mediterranea, è indubbiamente quello di allineare la priorità degli interventi europei verso il nord e il centro Africa a quelli già individuati per l’area del Medio Oriente, e di mobilitare le alleanze con gli altri grandi Paesi di accoglienza, verso la sottoscrizione di intese con i Paesi d’origine dei migranti di queste aree.
Forse è arrivato il momento di andare oltre le lamentele sulle carenze delle Istituzioni europee in materia di immigrazione e per la mancata solidarietà degli altri Paesi nei nostri confronti, e di verificare se le politiche per l’immigrazione che evochiamo sono effettivamente coerenti con i nostri reali interessi e adeguate ai tempi che stiamo attraversando.
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