Un ricorso contro la sentenza del tribunale di Roma che non ha convalidato il trattenimento dei migranti all’interno del Cpr (Centro di permanenza per il rimpatrio) italiano in Albania perché provenienti da Paesi “non sicuri”. È la prima contromossa del Governo e ieri il Viminale ha dato mandato all’Avvocatura dello Stato di preparare i ricorsi, anticipati in alcuni stralci dall’AdnKronos.



La decisione è arrivata dopo il decreto legge approvato dal Consiglio dei ministri di lunedì con il quale il Governo ha cercato di correre ai ripari dopo la decisione del tribunale di Roma che di fatto ha “svuotato” il Cpr dei richiedenti asilo, facendoli portare in Italia.

Ovviamente non si conosce ancora il testo del decreto del governo, che in queste ore sta facendo freneticamente la spola tra Palazzo Chigi e Quirinale. Ma più passano le ore, più aumenta la temperatura della polemica politica, con l’opposizione che chiama la Meloni a riferire in Parlamento, la maggioranza che accusa le “toghe rosse” e i giudici che si difendono dicendo di avere applicato la legge.



Per Alessia di Pascale, ordinario di diritto dell’Unione Europea nell’Università Statale di Milano, il tribunale di Roma ha legittimamente disapplicato il decreto del maggio scorso e “nessuno si è sostituto all’indirizzo del potere politico”. In più, “l’obbligo di disapplicazione da parte del giudice si estende a qualsiasi norma interna incompatibile”. Quindi il decreto legge del Governo potrebbe non bastare.

Il giudice competente del tribunale di Roma non ha convalidato il trattenimento dei migranti all’interno del Cpr in Albania. Qual è il motivo di tale decisione?

I giudici del tribunale di Roma hanno “disapplicato” il decreto adottato lo scorso maggio dal ministero degli Esteri contenente l’elenco dei cosiddetti “Paesi di origine sicuri”. In base al diritto dell’Unione Europea, sono considerati tali i Paesi in cui le leggi sono applicate in modo democratico e le circostanze politiche non portano generalmente e costantemente a persecuzioni, torture, trattamenti o punizioni inumani o degradanti, o a minacce a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato internazionale o interno.



Questo per quanto riguarda i Paesi sicuri. E la disapplicazione?

La disapplicazione è un meccanismo dell’ordinamento comunitario volto a salvaguardare la supremazia del diritto dell’Ue. Come ha ormai affermato la Corte di giustizia dell’Unione Europea con una giurisprudenza pluridecennale, “il giudice nazionale incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le norme di diritto dell’Unione ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale”.

A maggior ragione, immaginiamo, quando si tratta di impedire violazioni come quelle che ha citato.

Sì. Tale obbligo è tanto più stringente laddove debbano essere tutelati diritti che una norma Ue attribuisca ai singoli in modo chiaro, preciso e incondizionato, che lo Stato è tenuto a garantire. Una circostanza che la Corte nella sentenza dello scorso 4 ottobre ha riconosciuto sussistente nel caso di una domanda di protezione internazionale esaminata nell’ambito del regime speciale applicabile alle domande di richiedenti provenienti da Paesi terzi designati come di origine sicura.

La decisione del tribunale di Roma si è sostituita all’indirizzo del potere politico?

La decisione del tribunale di Roma non si è sostituta all’indirizzo del potere politico. Quale corollario del primato, che rappresenta uno dei principi cardine del diritto dell’Ue, gli Stati membri, e quindi evidentemente i governi nazionali, non possono far prevalere un provvedimento unilaterale rispetto ad un ordinamento giuridico da essi accettato a condizione di reciprocità.

Dove lo si trova stabilito?

Il punto è chiaramente affermato nella dichiarazione n. 17 allegata ai trattati europei, nella quale si ricorda che, per giurisprudenza costante della Corte di giustizia dell’Ue, i trattati e il diritto adottato dall’Unione sulla base dei trattati (nel caso specifico è in discussione una direttiva) prevalgono sul diritto degli Stati membri.

Per evitare che si ripeta una decisione come quella del giudice di Roma il Cdm ha varato un decreto legge, elevando a norma primaria quanto già stabilito da un decreto ministeriale comprendente i Paesi di origine sicuri. Perché questa decisione?

Sulla base delle informazioni disponibili emerge che il decreto legge approvato dal governo riduce i Paesi di origine sicuri da 22 a 19, eliminando quei Paesi – Camerun, Colombia e Nigeria – per i quali il ministero degli Esteri aveva segnalato delle criticità in alcune regioni e che pertanto apparivano in contrasto con il dettato della sentenza della Corte di giustizia dello scorso 4 ottobre.

Che cosa dice la sentenza nella causa C-406/22?

Afferma che l’articolo 37 della direttiva 2013/32 – che consente appunto agli Stati di designare su base nazionale gli Stati di origine sicuri – deve essere interpretato nel senso che un Paese terzo non può essere designato come Paese di origine sicuro quando determinate parti del suo territorio non soddisfano le condizioni materiali per tale designazione.

Cosa pensa della scelta di inserire l’elenco di tali Paesi in un decreto legge, sovraordinato ad un decreto ministeriale?

Occorre ribadire la posizione consolidata della Corte di giustizia, secondo la quale l’obbligo di disapplicazione da parte del giudice si estende a qualsiasi norma interna incompatibile. Pertanto, in linea di principio, non viene meno l’obbligo del giudice di valutare la compatibilità della norma nazionale con quella europea.

Dunque, per essere espliciti: si può eliminare la discrezionalità del giudice sulla “sicurezza” del Paese di origine?

Questo è proprio il punto sancito dalla Corte di giustizia il 4 ottobre. La Corte ha chiarito che il diritto a un ricorso effettivo, sancito dalla direttiva, comporta che il giudice tenga conto di tutti gli elementi di fatto e di diritto che gli consentano di effettuare una valutazione aggiornata del caso in questione. Il giudice deve, nell’ambito del riesame completo previsto dall’articolo 46, paragrafo 3, sollevare, sulla base degli elementi contenuti nel fascicolo e di quelli portati a sua conoscenza nel corso del procedimento, l’inosservanza dei requisiti materiali per tale designazione, anche se tale inosservanza non è espressamente dedotta a sostegno del ricorso.

Nordio ha detto che il giudice italiano non ha convalidato il trattenimento perché la sentenza del 4 ottobre è stata mal compresa nei punti 87, 88, 89, 90. Cosa si può dire in proposito?

Il ministro della Giustizia non ha chiarito in che termini sono stati mal interpretati. La posizione della Corte appare piuttosto chiara nel sancire l’ampiezza del potere spettante al giudice, che deve appunto condurre un esame completo. In ogni caso, le analisi che seguiranno nei prossimi giorni o settimane contribuiranno a chiarire meglio il senso delle affermazioni della Corte.

Ci sono stati provvedimenti da parte di giudici di altri Paesi europei analoghi a quelli del tribunale di Roma, in applicazione della stessa sentenza? 

La Corte di giustizia, nell’ambito della competenza interpretativa a sé spettante e che mira a prevenire divergenze interpretative del diritto dell’Unione,  ha appena fornito elementi idonei a definire la portata della norma contenuta nella direttiva. Vedremo prossimamente gli effetti sulle decisioni nazionali in relazione alla valutazione dei Paesi di origine sicuri.

(Federico Ferraù)

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