Si aspettano i pronunciamenti dei giudici, quelli della Cassazione e della Corte europea. Il futuro dei centri migranti costruiti in Albania per gli stranieri in attesa di asilo sembra già segnato. Si parla della possibilità di trasformarli in carceri per esponenti della mafia albanese detenuti in Italia. Il governo ha diminuito notevolmente il personale destinato a lavorare a Shengjin e Gjader, passato da 295 a 170 unità. Al di là delle polemiche sulle ingerenze della magistratura, Mauro Indelicato, giornalista di Inside Over e Affari Italiani, oltre che docente di Unicusano, osserva che il tentativo dell’Italia non è andato a buon fine: troppo poche le persone “ospitate” in una struttura pensata per 3mila persone. Il problema vero, però, è la mancanza di una politica comune europea sull’immigrazione: le polemiche sul caso Italia-Albania nascono dalla poca chiarezza della legislazione UE.



I centri per i migranti realizzati in Albania sono vuoti e si pensa di usarli per altre finalità. Che valutazione si può dare dell’operazione per quanto visto finora?

Questa struttura, a prescindere dal suo uso futuro, sarà ancora al centro delle polemiche politiche: a destra si dirà che è stata chiusa dai giudici, a sinistra che è stato uno spreco. Al netto delle sentenze, avrà ospitato una ventina di persone. Si può polemizzare sul pronunciamento dei giudici, ma di fatto non è stata utilizzata. Il problema è concepire l’immigrazione come un’emergenza. Questi centri sono stati pensati nell’estate del 2023, quando gli sbarchi erano a livelli record. Nel frattempo, però, sono calati del 60%, e una struttura concepita in emergenza non poteva essere utile in una fase ordinaria. Sono state spostate persone, strutture e soldi per 20 persone. È un errore commesso da tutti i governi: da trent’anni si gestisce la situazione come una continua emergenza, ma servono programmi che guardino oltre la singola estate con sbarchi record.



Il futuro di questi centri è comunque segnato?

Non serviranno a molto, anche al netto delle vicende giudiziarie. Politicamente, l’Europa non ha mosso un dito perché la von der Leyen cercava il voto del partito della Meloni per costituire la Commissione europea. Si è parlato molto dei centri anche in modo positivo, perché i popolari non volevano lasciare il tema immigrazione alla destra e perché la von der Leyen voleva l’appoggio dei conservatori. Ora che la Commissione è costituita e comprende un esponente meloniano come Fitto, se ne parlerà di meno. Non credo che i centri avranno una funzione concreta.



Il Tempo riferisce che potrebbero diventare carceri per esponenti della mafia albanese detenuti in Italia. È una possibilità concreta?

È una possibilità. Ma sembra uno di quei dibattiti sulle nuove destinazioni d’uso di strutture abbandonate. Se già oggi si parla di conversione delle strutture, significa che qualcosa è andato storto.

Il 4 dicembre la Corte di Cassazione si pronuncerà sui Paesi sicuri e sul rimpatrio dei migranti. Poi si aspetta il pronunciamento della Corte europea. Come si risolverà la questione dal punto di vista giudiziario?

Le sentenze si basano sulla legislazione attuale. Se c’è qualcosa da risolvere, non riguarda il modus operandi della magistratura, ma le leggi. Non siamo in emergenza, perché gli sbarchi stanno diminuendo: è il momento ideale per affrontare il tema in modo organico, non solo in Italia, ma in Europa. La sentenza cui fa riferimento l’ordinanza di ottobre del Tribunale di Roma è europea, quindi deve intervenire il legislatore europeo. Invece di un rimpallo di responsabilità che genera solo polemiche sterili, è necessario affrontare il problema in modo organico in Europa, chiarendo i punti che lasciano troppa discrezionalità ai magistrati. Certo, visto quanto accaduto negli ultimi anni, sembra una speranza vana.

I Paesi sicuri, quindi, dovrebbero essere definiti dalla UE?

È logico: se un tribunale italiano si rifà a una sentenza di un organo giudiziario europeo, il problema sta in Europa. Questa definizione deve essere data in modo chiaro, netto e inequivocabile dal legislatore europeo.

Che fine faranno le strutture costruite in Albania?

Credo che finiranno nel dimenticatoio. Fra qualche mese non ricorderemo nemmeno le polemiche. È stato un tentativo politico; non voglio banalizzare l’intervento di Roma per risolvere alcuni problemi, ma non si può affrontare l’immigrazione solo in chiave emergenziale: si rischia che i provvedimenti decisi nel 2023 siano già vecchi nel 2024. Bisogna parlare di migranti a Bruxelles prima ancora che a Tirana o Roma.

Si torna quindi alle mancanze europee, a una situazione che la UE non chiarisce come dovrebbe?

È sempre mancata una chiave legislativa unica a livello europeo. Non riguarda solo i controlli sulle coste o le richieste di asilo: la Germania ha rimpatriato oltre trenta afghani. Non possiamo dire che l’Afghanistan talebano sia un Paese sicuro. Lo ha fatto perché Scholz è in difficoltà, e si avvicinano le elezioni anticipate. Ogni Paese si muove da solo in base alle proprie esigenze politiche, manca un coordinamento centrale.

Se questa estate dovessimo affrontare un’altra emergenza, i centri in Albania potrebbero essere utili?

Abbiamo visto quante persone sono state trasferite in questi centri. Se a ottobre sono sbarcate 2mila persone e 20 sono arrivate in Albania, anche se ne arrivassero 28mila in estate, al massimo 200 verrebbero trasferite lì. Secondo le previsioni, la struttura poteva ospitare 3mila persone. A livello logistico è difficile portare migranti lì: non agevola il contrasto agli sbarchi e appesantisce l’accoglienza italiana, perché il personale utilizzato è italiano, sottratto dai nostri confini per essere impiegato in Albania.

Si sono fatti male i conti?

È stato un tentativo, ma non è andato a buon fine. Il fenomeno migratorio non si può risolvere esternalizzando il problema a un Paese terzo.

(Paolo Rossetti)

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