“Il protocollo tra Italia e Albania, nella sua struttura attuale, è tutto da definire. Un giudizio conclusivo sotto il profilo giuridico non si può ancora dare: non abbiamo elementi sufficienti, non sappiamo come saranno gestiti i centri e come verranno rispettate le procedure”. Alessia Di Pascale, docente di diritto dell’Unione Europea dell’Università statale di Milano, esperta di problemi migratori, delinea così il quadro attuale del tanto discusso accordo tra Italia e Albania che prevede la creazione di due centri in territorio albanese in cui verranno trasferiti i migranti salvati in mare, escluse donne in gravidanza, minori e persone vulnerabili.
Strutture che rimarrebbero attive per cinque anni nelle quali verrebbero ospitate 3mila persone alla volta con una permanenza di 30 giorni (ma chi non ha diritto può essere trattenuto 18 mesi) per prendere in considerazione le loro domande di asilo. Si tratterebbe di una sorta di cessione territoriale all’Italia che gestirebbe direttamente i migranti e le loro procedure.
Un’idea, quella messa nero su bianco dal presidente del Consiglio Giorgia Meloni e dal suo corrispettivo albanese Edi Rama, non completamente nuova, presa in considerazione in passato, anche se con modalità diverse, da altre nazioni e anche dalla Commissione europea, intorno alla quale ci sono molti dubbi da chiarire, soprattutto dal punto di vista della corrispondenza con il diritto europeo.
Professoressa, l’accordo Italia-Albania è un fulmine a ciel sereno o si tratta di un’idea già presa in considerazione, rieditata in modo nuovo?
Sono vent’anni che si discute di questi centri. Non è una proposta che nasce dal nulla: ci sono proposte almeno dal 2003 formulate a livello europeo. Il primo a evocare una soluzione simile fu l’allora primo ministro inglese Blair, seguito qualche anno dopo dalla Germania. Queste idee furono poi abbandonate perché emersero difficoltà nel renderle compatibili dal punto di vista giuridico con gli obblighi di tutela dei diritti fondamentali, le garanzie del diritto di asilo e le allora nascenti procedure dell’Ue per il riconoscimento della protezione internazionale. Però la stessa Commissione europea nel 2017, raccogliendo una sollecitazione del Consiglio europeo, presentò un documento informale in cui ipotizzava la creazione di “piattaforme regionali di sbarco”, luoghi in Paesi terzi in cui le persone soccorse in mare potevano essere sbarcate in condizioni di sicurezza. Si ipotizzò di costituirle in Paesi come Albania, Marocco, Tunisia, Kosovo, Algeria, che tuttavia si dissero contrari.
Come mai la Commissione europea non proseguì su questa strada?
Furono messe in luce delle criticità. Non era per niente chiaro come sarebbe stata gestita la fase successiva allo sbarco, se le persone avrebbero avuto la possibilità o meno di trasferirsi nella Ue. Furono evidenziati tutta una serie di profili, giuridici ma anche operativi, che portarono ad accantonare l’ipotesi. In questi ultimi anni, altri Paesi hanno formulato proposte similari: la Danimarca per prima nel 2021 propose di stipulare un accordo con il Rwanda e nel settembre 2022 le autorità dei due Paesi hanno firmato una dichiarazione per rafforzare la cooperazione nel settore dell’immigrazione e dell’asilo, collaborazione temporaneamente sospesa nel gennaio 2023. Il Regno Unito, invece, nel marzo di quest’anno ha presentato un disegno di legge (Illegal Migration Bill) che prevede il trasferimento dei migranti giunti irregolarmente sul territorio nazionale in Rwanda, in centri gestiti, così come le procedure, dalle autorità rwandesi. Le persone, anche ottenendo l’asilo, rimarrebbero in Rwanda. L’accordo siglato dall’Italia, sulla base della bozza circolata, è un po’ diverso.
C’è stato anche un accordo più recente sempre su questo tema, con protagonista l’Austria. Cosa prevede?
La settimana scorsa l’Austria e il Regno Unito hanno annunciato un accordo per la partecipazione austriaca all’intesa inglese siglata con il Rwanda, anche se quest’ultima non è ancora operativa, ma potrebbe diventarlo a febbraio, se supererà il vaglio della Corte Suprema inglese (la decisione è attesa a dicembre). È un meccanismo che sottrae uno Stato, l’Austria, agli obblighi discendenti dal diritto europeo perché la responsabilità passa alle autorità rwandesi. La Commissione europea ha reagito con un secco no: la proposta è incompatibile con il diritto dell’Unione.
È una situazione diversa da quella dell’Italia?
Sì, perché nel caso austriaco la gestione dei migranti sarebbe stata affidata al Rwanda, mentre l’Italia in Albania la manterrebbe per sé.
Ci sono esempi anche al di fuori dell’Europa?
Quello più famoso è il modello australiano. Con l’intento di disincentivare gli arrivi, sulla base di accordi, dal 2012 l’Australia ha trasferito i richiedenti asilo salvati o intercettati in mare in Papua Nuova Guinea e Nauru, dove le persone sono state trattenute e le domande di asilo esaminate. Si è trattato di un’esperienza estremamente costosa e fortemente controversa sul piano giuridico e dell’efficacia. Il modello italiano è un ibrido, che presenta delle somiglianze con i su ricordati precedenti, ma che a differenza di questi lascia tutta la responsabilità alle autorità italiane, con centri gestiti e domande analizzate da autorità italiane.
Come potrebbe giudicare la Ue l’intesa raggiunta dall’Italia con l’Albania?
La scorsa primavera la commissaria europea per gli Affari Interni Ylva Johansson in relazione alle proposte di Gran Bretagna e Danimarca sollevava la preoccupazione che questo tipo di modelli avrebbero potuto indurre altri Paesi europei a far esaminare all’esterno le domande di asilo. Parole profetiche, rispetto a quello che poi hanno fatto Austria e Italia.
A quali leggi o disposizioni, europee e non solo, bisogna fare riferimento per capire se l’intesa tra Italia e Albania in tema di migranti violi o meno il diritto comunitario e internazionale?
Tutte le proposte presentate in questi anni si sono scontrate con le molteplici problematiche giuridiche che sollevavano, legate alle modalità di esame delle domande, alle garanzie in materia di diritto internazionale discendenti dal principio di non respingimento e dal divieto di espulsione collettiva, alle garanzie su diritti fondamentali come la possibilità di proporre appello. Gli Stati europei sono vincolati al loro rispetto in virtù di obblighi internazionali (in primis la Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiato e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo) che hanno assunto volontariamente e che, come ha ricordato la Corte di Strasburgo in una pronuncia resa proprio nei confronti dell’Italia nel 2012, si applicano anche fuori dal territorio nazionale se le persone sono sottoposte alla giurisdizione dello Stato (il che si verifica ne momento in cui le autorità esercitano un controllo di diritto e di fatto sui migranti, come avverrebbe nell’accordo dell’Italia con l’Albania). Gli Stati sono inoltre tenuti al rispetto delle norme costituzionali. Pertanto, finora, le proposte formulate sono state abbandonate.
Quali sono quindi i motivi di questa cautela di giudizio nei confronti dell’accordo Italia-Albania?
Non è ancora chiaro prima di tutto come saranno esaminate le domande. Allo stato attuale abbiamo un meccanismo che prevede una fase amministrativa ed un eventuale ricorso davanti all’autorità giudiziaria: avremo commissioni territoriali che si trasferiranno in Albania per un primo esame? In caso di ricorso si crea una sezione specializzata in loco? Le persone potranno rimanere in questi centri 30 giorni, basteranno per queste procedure? Si tratta di passaggi obbligatori. Apparentemente queste persone sarebbero chiuse in questi centri, ma noi abbiamo delle garanzie costituzionali che prevedono la tempestiva convalida dell’autorità giudiziaria e il diritto dell’Unione Europea non prevede che le persone possano essere trattenute al fine dell’esame delle domande di protezione in via automatica. Sono trattenute solo in circostanze determinate.
Il tema comunque non è nuovo neanche per la Ue: l’Italia ha agito nel solco di queste proposte ma senza condividere l’ipotesi di un accordo con l’Europa?
Non è un tema nuovo, ma la Commissione europea, per quanto risulta, è stata informata poco prima della sua diffusione della presenza di questo accordo tra Italia e Albania.
Visto che in Italia ci sono state sentenze come quella del giudice Apostolico che hanno sconfessato alcune norme italiane in tema di permanenza nei centri per i migranti, dobbiamo aspettarci problemi del genere anche per le strutture in Albania?
Nel patto europeo sull’immigrazione e l’asilo, sul quale è stato raggiunto un consenso tra gli Stati, c’è un meccanismo che introduce la verifica rapida sui presupposti per l’accesso alle procedure di protezione internazionale e rafforza il ricorso alle procedure di frontiera e accelerate per verificare se la persona ha diritto alla protezione. Le proposte in esame puntualizzano che la persona durante questa fase non si trova sul territorio dell’Unione. È materialmente sul suolo europeo, ma di fatto non viene considerata come se fosse già in Europa. Il protocollo Italia-Albania nel prevedere che le persone siano trattenute per le procedure veloci ed eventualmente rimpatriate sembra andare nel solco di questa tendenza, che ha però già suscitato accesissime critiche.
Si può dire che l’Italia si sia ispirata a meccanismi previsti nel Patto?
Sotto certi aspetti sembrerebbe di sì, ma le proposte europee, estremamente controverse sin dalla loro presentazione, definiscono comunque nel dettaglio l’operatività delle nuove procedure e saranno in ogni caso soggette al vaglio del Parlamento europeo, attento alle garanzie sul diritto di asilo e sul rispetto dei diritti fondamentali, con cui dovrà essere trovato un accordo per la loro adozione.
(Paolo Rossetti)
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