Nessuno si attende che il Piano d’azione Ue per il Mediterraneo Centrale sia risolutivo. Non potrebbe esserlo. Ma che contenga elementi importanti, come il rafforzamento della cooperazione per “prevenire le partenze irregolari” o la necessità di una cornice normativa per le Ong, non si può negare. Come è difficile negare che la Commissione abbia dovuto premere l’acceleratore dopo la crisi tra Italia e Francia sul caso Ocean Viking e la sterzata impressa dal governo italiano al dossier migratorio.



Naturalmente ci sono anche le ombre, come l’insistenza sull’ambiguo “meccanismo volontario di solidarietà” per la redistribuzione dei migranti, che di fatto ha significato il fallimento della ricollocazione a tutto svantaggio dell’Italia.

Venerdì 25 novembre il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi incontrerà i suoi colleghi europei in una riunione straordinaria del Consiglio Giustizia e Affari interni dei 27 Paesi Ue. Sul tavolo ci sarà il piano in 20 punti voluto dalla commissaria Ue Ylva Johansson. Ne abbiamo parlato, sopratutto per quanto attiene la parte Sar (Ricerca e Soccorso), con Fabio Caffio, ammiraglio, esperto di diritto internazionale marittimo.



Cosa pensa, in termini generali, dell’action plan europeo? Pare una iniziativa lodevole, non trova?

Sicuramente, anche perché per la prima volta un documento Ue affronta apertis verbis il problema del coordinamento delle operazione di soccorso (Sar), vero nodo irrisolto della situazione migratoria del Mediterraneo centrale, e spina nel fianco per l’Italia.

Un problema complesso, che ci vede ancora alla ricerca di soluzioni. Perché? 

Perché abbiamo fronteggiato l’emergenza con un grandioso dispositivo Sar il cui nerbo è costituito da Corpo delle capitanerie di porto-Guardia costiera, Marina militare e navi private quali mercantili e imbarcazioni Ong. Dal 2013, da quando cioè c’è stata la tragedia di Lampedusa, che ha dato origine all’operazione umanitaria Mare Nostrum, il nostro Paese ha salvato e fatto sbarcare in Italia centinaia di migliaia di persone.



Nel primo pilastro (punti 1-13) si parla tra l’altro di vari “rafforzamenti” di iniziative, accordi e cooperazioni in essere. Tra questi, la capacità di Tunisia, Egitto e Libia di contrastare le partenze irregolari. Finora queste azioni hanno dato risultati concreti?

È bene sapere che la sicurezza migratoria riguarda, oltre che la vita ed i diritti dei migranti e l’integrità territoriale dei Paesi di arrivo – di qui il concetto Ue di protezione delle frontiere –, anche la sicurezza dei Paesi di partenza che è minacciata da espatri irregolari, spesso gestiti da organizzazioni criminali con imbarcazioni unsafe non idonee a navigare. Al riguardo va detto che già negli anni Novanta si cercò di dotare la Tunisia di capacità di sorveglianza costiera con un sistema di controllo delle acque territoriali. Tra l’altro, proprio con la Tunisia, nel 2011, durante la crisi migratoria seguente alle “Primavere arabe”, si concordò una cooperazione de facto nel soccorso per cui si favorivano gli interventi di salvataggio della Marina tunisina segnalando la posizione delle imbarcazioni in difficoltà. Con l’Egitto non mi pare ci siano state sinora intese per contrastare le partenze irregolari.

E con la Libia?

Ci abbiamo provato in più occasioni fino a che è risultato giuridicamente impossibile stipulare accordi di questo tipo per non violare i diritti umani ed il divieto di respingimenti collettivi. Il caso Hirsi, per il quale l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2013, insegna.

Come commenta la parte sui rimpatri (punti 10-11)? 

I rimpatri postulano, come correttamente è stabilito nel documento Ue, un accordo con i Paesi di origine. La Gran Bretagna in tempi recenti ne ha fatto grande uso, addirittura verso Paesi terzi come l’Uganda, scontrandosi tuttavia con l’Albania. Quanto a noi, non credo ne siamo stati tra i più convinti sostenitori. Non fosse altro per la difficoltà materiale di costringere individui a salire su un aereo o anche per l’impossibilità di stabilire la nazionalità di persone senza documenti. Forse incentivi economici potrebbero essere di aiuto.

Veniamo a quanto accade in mare, ovvero al secondo pilastro (n. 14-17). Qual è la sua valutazione di fondo?

Noto con favore che finalmente si parla, in ambito Ue, di un “more coordinated approach on search and rescue”, cioè nel Sar. Come ho detto, finora l’Italia, grazie al suo efficiente dispositivo marittimo, ha svolto un ruolo nel Sar che definirei titanico. Ma lo ha fatto spesso da sola, salvo i brevi periodi in cui ha beneficiato del sostegno Ue con le operazioni di Frontex “Triton” e “Thesis” e con la Eunavformed “Sophia”. Per il resto l’Italia ha sempre agito isolatamente, intervenendo in una vastissima area del Mediterraneo centrale di più di un milione di kmq che comprendeva anche le zone Sar libica e maltese.

Il problema?

Sta nel fatto che al coordinamento italiano delle operazioni di soccorso – il nostro centro di Roma era sempre l’unico ad essere chiamato, dovendo quindi assumere la gestione dell’evento Sar – si è anche associato lo sbarco in Italia delle persone salvate secondo il principio del Place of Safety (Pos) stabilito da varie convenzioni internazionali.

La soluzione?

Ci vogliono degli accordi Sar tra noi e Paesi limitrofi come Malta, Francia e Tunisia con cui non mi risulta siano mai state intavolate trattative che stabiliscano procedure di intervento Sar nelle rispettive aree di responsabilità secondo i principi della Convenzione di Amburgo del 1979. Un recente episodio di salvataggio avvenuto davanti alla Cirenaica e coordinato dalla Grecia, con cui abbiamo un memorandum di cooperazione Sar, conferma la validità del principio di cooperazione.

E dove dovrebbe avvenire lo sbarco?

Chiaramente, a questi accordi andrebbe associato un meccanismo per la scelta condivisa del Pos tra i Paesi competenti a vario titolo: Stato responsabile zona Sar, Stato di destinazione, Paese di bandiera della nave Ong intervenuta, membri Ue “volenterosi”, eccetera. So che nel 2012 è stato avviato nell’ambito dell’Organizzazione marittima internazionale (Imo) un negoziato di questo tipo tra Francia, Spagna, Malta ed Italia, poi insabbiatosi per riserve maltesi.

Sea Watch ha risposto piccata al piano in questione, soprattutto al punto 17: “non abbiamo bisogno di nuove linee guida per le navi di soccorso: abbiamo bisogno di Stati dell’Ue che aderiscano ai diritti umani e marittimi internazionali esistenti”. Che ne pensa?

Non commento, ma rilevo che una cosa sono delle associazioni no profit private che perseguono finalità umanitarie, ed un’altra degli Stati sovrani che agiscono tra l’altro in una cornice giuridica che ancora prevede l’intangibilità dei confini. D’altronde uno sguardo a quello che accade su terra ed in mare nel corso di guerre e crisi internazionali conferma che i confini sono tuttora un punto sensibile delle relazioni internazionali. Oltretutto, la gran parte delle Ong sembra parlare facendo riferimento all’Italia.

È vero. Perché lo dice?

Perché non si ha chiara evidenza che lo stesso venga fatto per altri Paesi come la Spagna, ad esempio, ove si verificano emergenze migratorie vicino alle Canarie o a Gibilterra simili a quelle del Mediterraneo.

Come commenta il richiamo al diritto internazionale fatto nel documento? È conciliabile con il ruolo svolto attualmente dalle Ong?

Esiste tutto un corpo di norme internazionali, positive e consuetudinarie, che disciplina gli obblighi di soccorso in mare, il rispetto dei diritti umani, lo sbarco delle persone salvate in un Pos e la concessione di protezione internazionale agli aventi titolo. Questo non vuol dire che gli obblighi relativi ricadano solo sull’Italia come molto spesso si tende a fare sia a livello europeo che nazionale. Le responsabilità vanno infatti condivise tra tutti i Paesi interessati, compresi quelli di bandiera delle Ong.

(Federico Ferraù)

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