La crescita costante delle persone indigenti di origine straniera, un terzo del totale di quelle povere in Italia, e la condizione precaria dei lavoratori regolarmente residenti, circa 2,4 milioni, tre quarti dei quali costretti a operare nei mercati del lavoro caratterizzati da ampie quote di lavoro sommerso, sono gli indicatori della fine del ciclo migratorio, iniziato alla fine degli anni ’90, alimentato dai flussi di ingresso rivolti a soddisfare la carenza di manodopera disponibile per le mansioni con bassa qualificazione.



Queste evidenze vengono accuratamente trascurate nel dibattito politico sul tema dell’immigrazione che continua a essere caratterizzato da una serie impressionante di luoghi comuni, che vengono propinati all’opinione pubblica come verità assolute e con toni moralistici che diventano dirompenti nell’occasione delle tragedie nel Mar Mediterraneo. L’obiettivo primario diventa sempre quello di cercare le colpe delle disgrazie o delle mancate risposte allo schieramento politico avverso, a prescindere dalla complessità dei problemi e dalle iniziative messe in atto da una molteplicità di attori e di fattori che si muovono in piena autonomia.



Lo stato confusionale assume livelli fuori dal comune quando si utilizza l’analisi dei flussi irregolari e la necessità di accogliere le persone a prescindere dal requisito di protezione internazionale per soddisfare i fabbisogni del nostro mercato del lavoro. Le pagine dei giornali vengono riempite di articoli che affiancano la lettura degli sbarchi il fabbisogno di accoglienza dei profughi con le richieste di ampliare le quote di ingresso per reperire badanti, camerieri, braccianti, camionisti, manovali e persino personale specializzato per la sanità e per l’assistenza.

Aprire agli ingressi legali come alternativa agli imbarchi è diventato il mantra che viene incredibilmente teorizzato da finti esperti dell’immigrazione e da molte forze politiche, per offrire un’alternativa ai percorsi d’ingresso irregolari. Anche se non si comprende quale possa essere la relazione tra i due fenomeni dato che gli ingressi per motivi di lavoro devono essere selezionati in base a dei fabbisogni professionali e alle motivazioni delle persone che aspirano a emigrare dal proprio Paese per sfuggire ad emergenze o per migliorare le proprie condizioni economiche avendo come riferimento i parenti già insediati nei Paesi di accoglienza. L’incidenza dei richiedenti protezione sui flussi reali delle nuove attivazioni dei rapporti di lavoro è di scarso rilievo.



Sono le politiche ostili ad accogliere i profughi a favorire le morti nel Mar Mediterraneo? Nei grafici degli ultimi 8 anni l’incremento dei morti risulta parallelo a quello dei salvataggi. Ma lo si potrebbe interpretare, ed è quello che abitualmente si fa, anche come un elogio per il numero crescente dei salvataggi compiuti. Resta il fatto che le tratte aumentano, ed è un fatto comprovato dalle indagini svolte dai servizi di intelligence, quando le politiche di soccorso in mare aperto e in acque internazionali vengono intensificate. Non è difficile comprendere il perché: le probabilità di accoglienza aumentano e si riducono gli investimenti sui mezzi di transito da parte degli scafisti.

Dobbiamo offrire le quote di ingresso ai Paesi d’origine per incentivarli a contrastare gli esodi irregolari? Sembra una buona idea e come tale viene praticata nella gestione e assegnazione delle quote di ingresso previste da decreti flussi. Ma con scarso successo sul versante della sottoscrizione degli accordi per il contrasto degli esodi irregolari che non sono mai decollati, e per i mancati rimpatri delle persone che non avevano il requisito per ottenere il permesso di asilo. Del resto a quanti Paesi dovrebbero essere date le quote, e in quantità significative per ogni nazione, per disinnescare i flussi irregolari?

Aprire i corridori umanitari per gestire in modo alternativo i profughi con spese a carico dello Stato? È una proposta che circola nella destra politica per giustificare la linea dura verso gli scafisti, e nella sinistra per accogliere un bel numero di profughi evitando i rischi delle traversate. Qualcuno azzarda la possibilità annunciata di mobilitare le ambasciate per la raccolta e l’esame delle richieste. Ottima idea, puntualmente ribadita nelle conferenze stampa dei ministri dell’Interno. Un vero peccato che, a parte qualche simulazione a scopo di propaganda, nessun Governo dei Paesi di accoglienza europei, e non solo quelli, pensi seriamente di praticarla. Il motivo è semplice: secondo le stime degli organismi dell’Onu in giro per il mondo, risultano circa 80 milioni di profughi e solo una parte esigua degli stessi, quelli che possono pagare gli organizzatori delle tratte, approdano nei Paesi sviluppati.

Quanto alla programmazione delle quote d’ingresso per motivi di lavoro, periodicamente alternate alle sanatorie, i livelli di approssimazione delle modalità di programmazione e di quantificazione delle quote e la scarsa efficacia in termini di risultati raggiunti, largamente al di sotto degli obiettivi programmati, sono arrivati al massimo storico. Gli sportelli per l’immigrazione hanno ancora in gestazione le domande di regolarizzazione della sanatoria promossa nel luglio del 2020 per posti di lavoro diventati nel frattempo inesistenti (sempre ammesso che fossero tali all’atto delle domande). Ma è tutto il meccanismo delle gestione delle quote e della verifica dei risultati ottenuti in termini di rapporti di lavoro consolidati a essere incompatibile con i tempi e le caratteristiche della domanda e offerta di lavoro.

Come sottolineato in precedenza, queste criticità sono i sintomi dell’esaurimento delle politiche migratorie messe in campo a partire dalla fine dello scorso secolo. I flussi migratori avranno anche nel futuro un ruolo fondamentale nella rigenerazione della popolazione attiva dei Paesi sviluppati e tra questi l’Italia, data la previsione di una progressiva riduzione della popolazione in età di lavoro nei prossimi 15 anni. Diversamente dal passato le migrazioni saranno influenzate da una competizione tra gli Stati per attrarre le risorse umane qualificate per soddisfare un fabbisogno crescente di personale qualificato coerente con gli impatti delle tecnologie sulle organizzazioni del lavoro. Una cosa assai diversa dalla teorizzazione del fabbisogno di manovalanza poco qualificata per assicurare la sostenibilità dei comparti economici caratterizzati da bassi livelli di investimenti e di produttività che continuano ad avere un ruolo dominante nella narrazione italiana dei fenomeni migratori.

Per le politiche finalizzate a contrastare i flussi irregolari e ad accogliere i profughi servono masse critiche di intervento su scala europea, e anche qualcosa di più se si tiene conto dell’entità dei fenomeni migratori e dei campi di raccolta nelle aree limitrofe all’insorgere delle emergenze che hanno causato gli esodi. Lo stesso vale per la promozione degli accordi multilaterali di cooperazione con i Paesi d’origine scegliendo a nostra volta le alleanze con altri Paesi di accoglienza europei e con quelli di origine sulla base di comuni interessi. In questa direzione muovono le proposte di trasformare Frontex in un’autentica polizia di frontiera e di costituire un’Agenzia europea per l’asilo. Un’evoluzione che vale molto di più del criterio di ripartizione obbligatorio degli immigrati richiedenti protezione internazionale dato che i livelli di accoglienza finale di queste persone risultano al di sotto della media europea.

I nuovi ingressi per motivi di lavoro devono essere orientati dagli attori della domanda di lavoro e da percorsi di selezione e inserimento lavorativo accompagnati da formazione (formazione nei Paesi d’origine o con il rilascio di permessi di ingresso per motivi di formazione riconvertibili con quelli di soggiorno). Agli sportelli per l’immigrazione deve essere affidato il compito di verificare la congruità dei risultati raggiunti con l’instaurazione dei rapporti di lavoro.

Le nuove politiche per l’immigrazione devono essere valutate nell’ambito dell’evoluzione del mercato del lavoro nel suo complesso, di un maggiore utilizzo delle risorse umane disponibili e di una crescita della qualità dei rapporti di lavoro.

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