A inizio 2019, l’economista Francesco Daveri scese in campo su lavoce.info per rintuzzare i commenti a suo avviso troppo enfatici riguardo l’“effetto Salvini” sui flussi di migranti dal Nordafrica verso l’Italia. Dati Unhcr alla mano per Daveri era poco corretto mettere a confronto il crollo degli sbarchi anno su anno nel periodo gennaio–maggio 2018 con il Pd Marco Minniti ancora al Viminale (13.430 contro i 60.228 del 2017) con quello del periodo giugno–dicembre (9.941 contro 59.141) con Matteo Salvini vicepremier all’Interno. Era invece più significativo osservare come gli sbarchi “tagliati” nel biennio 2017–2018 (158.058) fossero per oltre due terzi funzione dell’“effetto Minniti” e per meno di un terzo dell’“effetto Salvini”.



L’intento del commentatore bocconiano era evidentemente quello di contrapporre l’efficacia del cosiddetto “piano Minniti” implementato dal governo Gentiloni (peraltro sconfitto alle urne) rispetto alla politica dei “porti chiusi” decisa dal leader leghista nel governo gialloverde vincitore nel marzo 2018. I contenuti operativi del piano Minniti, tuttavia, nell’articolo venivano omessi in un inciso sfuggente: le considerazioni statistiche a favore dello score di Minniti venivano presentate “indipendentemente da come si valutino le politiche messe in atto dai due ministri”. E questo non risparmiò a Daveri una raffica di commenti problematici, come subito il primo: “Trovo aberrante che in questa analisi non si trovi il tempo di ricordare le persone morte nei lager libici”.



Il piano Minniti, al nocciolo, è stato infatti una trattativa di successo – condotta principalmente dai servizi di intelligence italiani – con i “signori della guerra” in Libia, perché frenassero in campi di concentramento le ondate di profughi provenienti dal continente profondo. Un negoziato di “diplomazia reale”, peraltro non troppo diverso da quello istituzionale più volte riscritto dalla Ue con la Turchia di Erdogan. Un dialogo “distensivo” fra un esecutivo appoggiato anche da Laura Boldrini e un coacervo di tribù e milizie in parte considerevole di matrice islamica, che si sono spartite la Libia dopo la “liberazione” dal regime di Gheddafi avvenuta nel 2011. Questo in seguito a una guerra condotta da Usa, Gran Bretagna e Francia sotto l’egida della Nato. Su uno scacchiere divenuto poi terreno di “guerra semicalda” fra potenze regionali o globali (fra queste la stessa Turchia e la Russia, sotto l’occhio di Egitto e Israele).



Le similitudini di scenario con l’Afghanistan dell’agosto di dieci anni dopo sono troppe per non essere inquietanti: anzitutto per l’Italia, che proprio in seguito alla crisi libica entrò in una spirale di crescente instabilità politico-economica. Evidentemente non ancora risolta se – fra spread, recessione, tensioni europee e pressioni geopolitiche prima e durante la pandemia – dal governo Monti del 2011 il Paese è giunto al governo Draghi del 2021.

Poco sembra contare, alla fine, che il nation building a Tripoli non sia neppure iniziato – lasciando subito a se stesso un Paese sbriciolato – mentre a Kabul è fallito in pochi giorni dopo vent’anni di occupazione Nato. Gli ingredienti paiono gli stessi: le difficoltà dell’export ideologico (“politically correct”) della democrazia, gli opportunismi bellicisti delle potenze (dagli Usa di Obama & Biden alla Francia di Sarkozy), lo scontro di civiltà fra Occidente e islam con Russia e Cina “convitati di pietra”; la strumentalizzazione degli “ultimi”, siano migranti in fuga dall’Africa o dall’Afghanistan.

Sembra invece cambiato (o forse no…) l’atteggiamento di politici e intellettuali “democratici”. Chissà se oggi Daveri difenderebbe ancora la logica e l’efficacia del piano Minniti quando il Pd è in prima fila nell’invocare “porte aperte” a tutti i profughi afghani, braccati dai talebani. Proprio il Pd è stato del resto il primo beneficiario del blitz Nato in Libia: Silvio Berlusconi – nettamente vincitore del voto 2008 contro Walter Veltroni – è stato abbattuto con Gheddafi. E da allora i dem si sono aggiudicati due volte il Quirinale, tre volte Palazzo Chigi e quasi costantemente importanti poltrone di governo nonostante non si siano mai imposti in un’elezione politica. 

Minniti – dimessosi infine da deputato Pd – ancora un anno fa non aveva d’altronde timore di rilasciare fra virgolette affermazioni come queste: “È illusorio pensare che il problema dell’immigrazione si risolva con la redistribuzione dei profughi all’interno della Ue. La partita si gioca in Africa, è lì che vanno governati i flussi, più che mai adesso, in epoca di coronavirus”; oppure: “La Libia è storicamente una potenziale piattaforma di attacco. Fino a pochi anni anni fa Sirte era in mano all’Isis. Oggi in Tripolitania, portati insieme con l’esercito turco, ci sono 2.500 combattenti turco-siriani di formazione jihadista. Senza considerare che il giornale inglese The Telegraph ha scritto che Erdogan avrebbe dato il passaporto turco a guerriglieri di Hamas. Fatto gravissimo, se vero, pensando anche che Ankara è nella Nato”.

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