Mussie Zerai è il responsabile delle comunità cattoliche eritree sparse per tutta l’Europa. Nato nel 1975 all’Asmara, in Eritrea, è arrivato nel 1992 a Roma, fuggito da una delle dittature più crudeli e durature della nostra epoca. Crescendo in Italia come un migrante senza documenti ha sentito il dovere di aiutare le persone come lui che arrivavano in Italia. Per questo, nel 2006 ha fondato la Agenzia Habeshia, di cui è presidente, una Ong per l’aiuto e la difesa dei migranti che giungono dal Corno d’Africa in Italia e in altri Paesi come la Libia o l’Egitto. Nel 2010 è stato ordinato sacerdote e nel 2015 è stato candidato al Premio Nobel per la Pace. Lo intervistiamo appena rientrato dalla Germania di ritorno da uno dei suoi viaggi pastorali che fa per tutta l’Europa.
Quali sono i suoi progetti per le celebrazioni del Santo Natale?
Io celebro il Natale due volte: il 25 dicembre secondo la tradizione romana e il giorno dell’Epifania secondo la tradizione orientale. Perciò i miei progetti sono per due natività che fanno memoria dello stesso fatto storico, la nascita di Cristo. La prima la festeggerò a Bergamo con alcuni amici, che sono come la mia famiglia, perché sono quelli che mi accolsero quando arrivai come migrante da ragazzo in questo Paese.
Per Natale non torna al suo Paese?
Non è così facile per me tornare in patria. Ormai io celebro normalmente il Natale orientale con qualcuna delle molte comunità eritree qui in Europa. Quest’anno lo passerò in Finlandia, con la neve e il freddo, e Santa Claus. Il Natale è un momento di contraddizione nella nostra cultura, che adora le persone di successo e i potenti.
L’opposto del significato autentico del Natale?
In queste date celebriamo uno stordimento e un sentirsi diventar piccoli: un Dio che si abbassa alla condizione umana. Un Dio che si fa bambino, che è fragile e ha bisogno dei suoi genitori per poter vivere.
Come si vede oggi questo Dio?
Giuseppe e Maria stavano cercando un alloggio perché Gesù potesse nascere e nessuno li accolse. Trovarono solo una stalla e lì iniziò la sua vita. Io vedo oggi questo bambino Gesù che piange, chiede da mangiare, calore umano e educazione, in tutti i migranti che abbiamo nei nostri Paesi europei. Molti fuggono da situazioni orribili e hanno dovuto attraversare Paesi come la Libia, dove li si mette in carcere, in campi di concentramento, li si tortura, li si violenta …
Pensa che questo pianto sia ascoltato in Europa?
In molti casi facciamo orecchi da mercante o perfino li trasformiamo in nemici, in un pericolo. Abbiamo paura. Sono sempre di più quelli che in Europa non rispettano i diritti umani quando si tratta dei più deboli. Sembra che i diritti siano solo per quelli che rispondono a determinati prerequisiti. Gli altri cerchiamo di ignorarli, escluderli o semplicemente espellerli. Ma il diritto alla vita è qualcosa di universale.
Perché crede che succeda questo?
La perdita dei valori cristiani in Europa ha a che vedere con la perdita della fede. Dopo che Nietzsche ha dichiarato la morte di Dio, ciò che ci rimane è il potere del più forte, del più potente, di chi ha diritti perché li può difendere. Una volta che l’Europa ha voltato le spalle alle sue origini, noi ci mettiamo a stigmatizzare, ad agire e perfino legiferare contro i più deboli e indifesi.
Pensa che questa forma di secolarizzazione abbia fatto fare un passo indietro nella Chiesa?
Certamente. Siamo figli della nostra epoca. È necessario un lavoro costante da parte dei cristiani per non allontanarsi da Gesù, l’origine della nostra fede. Il cammino diritto lo indica solo Lui e non la nostra immagine di Lui. Molte volte noi cristiani ci facciamo una religione a misura, comoda e confortevole, nella quale si eliminano i chiodi e la corona di spine di Cristo. A volte costruiamo una Chiesa chiusa in se stessa, che consiste nel rispettare certi precetti morali, comunitari, estetici, etc., che teoricamente esimono dal guardare al prossimo e a ciò che succede intorno.
Come vive la ferita dei bambini e delle bambine che incontra nel suo lavoro?
Tutti arrivano con il corpo segnato dalla violenza, portano cicatrici che sono il riflesso di ferite più profonde. Sono stati torturati, hanno abusato di loro, hanno sofferto fame e sete, molte donne sono state violentate. Sono storie una più terribile dell’altra. La loro ferita apre la mia ferita e io, dopo il mio cammino nella Chiesa, so che la mia sofferenza permette un’ascesi, permette di liberarmi di cose superflue e poco importanti e avvicinarmi così di più al Signore.
Sarebbe una specie di “centuplo quaggiù”? Però, come comunica questo sapersi amato dal Signore così come lei è, con tutte le sue ferite?
In molti casi è difficile spiegare a questi piccoli, che hanno sofferto tanto male, che hanno assistito alla morte di tanti loro cari, che tutto questo dolore e tutta questa sofferenza possono essere il luogo di incontro privilegiato con Dio. Nella maggior parte dei casi basta aiutarli, accompagnarli, accoglierli. Opere di misericordia spirituale e corporale. È in questo abbraccio che possono rendersi conto di essere amati così come sono.
Papa Francesco insiste sull’importanza per la Chiesa dei più dimenticati e vulnerabili nella nostra società. Cosa può trovare la Chiesa in questa relazione con i più fragili ed emarginati?
Credo che la Chiesa incontri nei deboli il suo posto, la sua fonte, perché Cristo, lo vediamo continuamente nel Vangelo, scelse di identificarsi con loro. Lo vediamo, per fare due esempi, nella parabola del buon samaritano o in Matteo, quando Cristo ci dice: “In verità vi dico, quanto avete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli, lo avete fatto a me”. Per questo, Francesco, seguendo la tradizione della Chiesa, insiste su questa Chiesa in uscita, che si riversa sui più bisognosi e perfino vive con loro.
Per finire, le chiederei di esprimere un augurio di Natale per i nostri lettori.
Auguro a tutti un felice Natale e li invito ad aprirsi all’accoglienza di questo Bambino nel presepe. Partecipando nel nostro presente alla cultura dell’accoglienza saremo creditori di ciò che dicono le Beatitudini: “Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati”.
(Jorge Martinez Lucena)