Sulle coste mediterranee c’è un nuovo focolaio di crisi migratoria, ma non nel Canale di Sicilia e neppure nel Mar Egeo. Il caso degli ebrei in fuga dalla guerra russo-ucraina verso la Terra dei Padri israeliana non ha per scenario principale i corridoi marini verso l’Europa, ma vi si affianca nel Vicino Oriente. Ed è comunque significativo di una dimensione ormai geopolitica delle tensioni migratorie: che pure un leader europeo come il Presidente francese Emmanuel Macron si ostina a ridurre alla presunta incapacità del Governo italiano di gestire un traffico di barconi dal Nord Africa.
Le mosse del Premier israeliano Bibi Netanyahu – già sotto assedio nelle piazze di Tel Aviv e Gerusalemme per un controverso tentativo di riforma costituzionale della giustizia – testimoniano invece quanto complesso e globale, molto politico e ben poco umanitario, sia divenuto il gioco di forze attorno ai flussi migratori.
Sono già settimane che le Ong israeliane attive nell’accoglienza degli ebrei profughi da Russia, Ucraina e Bielorussia lamentano ritardi burocratici crescenti nell’applicazione della Aliyah, la cosiddetta “legge del Ritorno”. È questa la traccia profonda e visibile del sionismo costitutivo del moderno Stato ebraico. Nella versione allargata della legge, in vigore dal 1970, chiunque possa vantare almeno un nonno o nonna israeliti può chiedere in qualsiasi momento la cittadinanza israeliana, con tutti i diritti connessi. E dal febbraio 2022 sono stati 65mila coloro che hanno avviato le pratiche presso le rappresentanze diplomatiche a Mosca, Kiev, Minsk. Scontrandosi con tempi di attesa sempre più lunghi: fino a 9 mesi, oggi col rischio concreto (soprattutto in Russia) di essere richiamati alle armi. Oppure finendo in veri e propri incubi: com’è accaduto alla vedova non ebrea di un ebreo ucraino morto in combattimento, che non riesce a ricongiungersi in Israele coi tre figli cui invece è stata riconosciuta la cittadinanza.
Il Governo di Gerusalemme si trincera dietro le cifre dell’emergenza in Paesi resi difficili dalla guerra e prima ancora dal Covid (nel caso russo anche da un clima di ostilità ambivalente per gli israeliti). Ma che il caso sia politico – e precedente allo showdown fra Mosca e Kiev – lo ha confermato l’iniziativa di Simcha Rothman, leader del Partito Sionista Religioso, partner di destra della coalizione di governo. Rothman, Presidente della commissione Giustizia della Knesset, ha avanzato la proposta di restringere la legge del Ritorno, con la ripresa dell’interpretazione ortodossa della trasmissione dell’ebraismo: per via matrilineare e non anche patrilineare (come invece ormai ammesso anche dai settori conservatori della comunità ebraica internazionale, a partire dagli Usa).
La questione è tutt’altro che dottrinale: laddove, anzitutto, nella Russia sovietica la certificazione anagrafica dell’identità ebraica è avvenuta di norma per via patrilineare. Di qui – secondo la denuncia di varie organizzazioni di immigrati russi in Israele – un presunto boicottaggio strisciante verso nuovi ingressi di ebrei russi o ucraini russofoni. Ma di qui – soprattutto – il rischio ultimo di revoca della cittadinanza ad almeno 400mila israeliani di origini russe immigrati negli ultimi decenni. Fino a una (teorica) “disruption” di livello globale: la perdita del diritto formale e insindacabile al Ritorno per milioni di ebrei nordamericani.
La situazione, in ogni caso, si presenta almeno in parte paradossale. A mettere in discussione la Aliyah sono i settori della società e della politica israeliana – quelli animati dal nazionalismo religioso – che hanno beneficiato in misura notevole della lunga contro-diaspora di 1,5 milioni di ebrei russofoni, storicamente in orbita ortodossa. Ma sono anni, ormai, che alcuni leader dell’ortodossia ebraica hanno messo sotto accusa a 360 gradi il Ritorno “indiscriminato”, basato sulla pura discendenza anagrafica. Attraverso di esso diventerebbero cittadini di Israele anche ebrei non osservanti, se non addirittura “gentili”, secondo l’allarme del Rabbino Capo Sefardita Yitzhak Yosef. Un’eco della complessa evoluzione contemporanea dell’ebraismo dentro e fuori Israele. In sintesi semplificativa: fra coloni ortodossi (il cuore dell’elettorato di centro-destra) e start-upper “liberal” della Tel Aviv Valley (giunti spesso direttamente dalla Silicon Valley o da Wall Street).
Il ripensamento della Alyah nasconde quindi preoccupazioni nettamente politiche del centrodestra al potere a Gerusalemme: che sembrano guardare, peraltro, soprattutto Oltre Atlantico, ultra-centenario rifugio degli ebrei perseguitati in tutt’Europa, prima e dopo la Shoah. Una comunità – quella americana – oggi però a sua volta divisa fra elettori repubblican/trumpiani (sostenitori di “King Bibi” in Israele) e storici ebrei dem/liberal, acerrimi critici di The Donald come del nazionalismo religioso oggi maggioritario nella Terra dei Padri.
Resta il fatto che un nuovo muro sembra in costruzione in Israele: non più contro i palestinesi dei Territori, ma per frenare altri ebrei che vogliono “tornare a casa” dal paese neo-zarista di Vladimir Putin, dove è stata coniata la parola “pogrom”. Una virata – quella di Gerusalemme – non necessariamente ostile al Cremlino: nella conferma che Netanyahu vuole riservarsi una terzietà attiva nella ricomposizione in corso degli equilibri geopolitici. Fra la vicinissima Siria e il più lontano Nord Africa. Fra lo spregiudicato neo-protagonismo dell’Arabia Saudita di Mohammed-bin-Salman, la minaccia iraniana e l’imprescindibile Cina.
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