“Quanto affetto per Mihajlovic” titola un sito, ripercorrendo messaggi, tweet manifestazioni d’affetto indirizzati all’allenatore del Bologna che ha annunciato di avere la leucemia, di fronte alla battaglia per la vita che un uomo deve affrontare. Quanta commozione, sincera, ci mancherebbe. Forza Sinisa, per lui, per la sua famiglia, per l’uomo nel suo dolore, nella sua sofferenza, che lotta contro una terribile malattia.



Ma perché non rendere la commozione quotidiana, perché non trasformare in permanente il rispetto che una tantum proviamo nei confronti di un essere umano come noi che si disvela nella sua fragilità, nella sua transitorietà? Questo sentimento riesce a ghermirci solo di fronte alla malattia o alla morte, improvvisamente proviamo qualcosa che ogni giorno ci sembra precluso nelle nostre parole sui social, negli stadi, nelle manifestazioni di qualsiasi tipo. Siamo sempre alla ricerca di eroi, ma il vero eroismo è rendere la prossimità che proviamo per un attimo quotidiana, continuativa. Io ricordo cosa urlavano i tifosi contro Mihajlovic e anche lui non le mandava a dire, eh. Ecco, mi piacerebbe trovare un punto comune su cui generare una convivenza migliore, nello sport e nella vita, qualcosa che parta da quello che è l’altro e non solo dalla difficoltà, fatica, dolore che prova in un momento della sua esistenza.



La stessa situazione l’abbiamo vissuta con Davide Astori. La morte improvvisa del capitano della Fiorentina ha generato sgomento, commozione, rabbia per una giovinezza stroncata, per una famiglia distrutta. Nelle curve di tutti gli stadi sono comparsi striscioni addolorati, sono stati intonati cori sofferti, ma che cosa è rimasto, in cosa ha cambiato quell’esperienza che ha accumunato tifosi che fino a un attimo prima si insultavano nei modi più osceni? Nulla.

C’era una pubblicità con Ronaldo (quello interista) che recitava: la potenza è nulla senza controllo. In questo caso direi: la commozione è nulla senza cambiamento. Se domani nei nostri stadi, nelle nostre vite riprenderemo a trattare il prossimo con la violenza di prima, allora, di fronte al dolore e alla sofferenza altrui, meglio una più coerente alzata di spalle.