Da agnostico diventa cristiano per la via della meraviglia. È la meraviglia che gli permette di conoscere. Conosce comunità cristiane di CL in Spagna. Si meraviglia della vita umana che lì incontra. La meraviglia lo invade – ma perché? – e lo spinge come un salmone a cercare di risalire la corrente per arrivare alla sorgente. Eh sì, non Dio, ma Dio incarnato, è la sorgente, la spiegazione plausibile. Anzi, la spiegazione. Quella che loro dicono e testimoniano. In una sequenza umana ininterrotta da duemila anni. Ma andiamoci adagio, è un percorso drammatico, mica come risolvere un sudoku.
È assolutamente da conoscere la storia di Mikel Azurmendi. È un grandissimo filosofo, antropologo, scrittore spagnolo contemporaneo; basco per la precisione, tra i fondatori dell’Eta, il partito armato indipendentista, tempo dopo essere stato espulso, da giovane, dal seminario; oppositore poi, acerrimo, dell’Eta, perché non si ha il diritto di decidere di ammazzare così. Agnostico.
Su CL spagnola, dopo averla conosciuta e indagata, ha scritto un libro. Non un instant book tirato via al volo tanto per vendere: uno studio accurato, da antropologo e sociologo così serio verso l’oggetto “mirabile” da sfondare i canoni della sociologia moderna illuminista, quella per cui “si deve studiare l’uomo come si studia un minerale”. Il libro è uscito finalmente anche in italiano, e si intitola L’abbraccio. Verso una cultura dell’incontro, ed è edito da Rizzoli. Scrive il libro e dopo… si converte al cristianesimo.
Il Meeting, grazie al giornalista spagnolo Fernando De Haro (firma – posso dirlo? – prestigiosa anche de ilsussidiario.net) ci ha fatto incontrare, nella serata di ieri, questo uomo, con un bellissimo servizio filmato di tre quarti d’ora (mi sembra); quest’uomo con la pelle scura tenace e rugosa del vecchio contadino, in azione non nel suo studio con inquadrati i libri sullo scaffale, ma nel suo orto (“ma poi ce ne ho un altro”), cappello di paglia in testa e orgoglio dei pomodori che vengono su bene. Si parla di teologia, di San Paolo, di Wittgenstein, dei limiti dell’illuminismo, degli incontri con uomini, famiglie e azioni della “tribù” di CL (non dimenticare che Azurmendi è antropologo, tribù vuol dire tanto nel suo approccio). Poi la conversatio in coelis (si parla del sublime, mica bruscolini) prosegue nella cucina dell’illustre studioso, in piedi accanto al fornello, dove rimesta di quando in quando i tocchetti di baccalà messi sul fuoco in una bagnina con le cipolle e gli aromi, e il sale, ma non troppo sale. “Anch’io ci metto poco sale”, concorda il giornalista.
Si vede che i due sono complici. Da un po’ di anni. E la complicità è una roba che ha a che fare con Wittgenstein e con le cipolle. Ma principiò in circostanze meno bucoliche e più dolenti. Fu quando il professorone era in ospedale rassegnato a non uscirne da vivo, e va a sapere come, ascoltando la radio… fece il suo primo incontro. Si imbatté, il sabato e la domenica mattina, nelle trasmissioni di Fernando. Si accorse che lo interessavano. Non erano le solite cose prevedibili secondo cliché. Non ne perse più una.
Non morì. Incuriosito da De Haro, finì per risalire all’esperienza di CL. O meglio, dapprima a conoscere gente, questo prete, quel lavoratore, quei ragazzi. Scoprì con sorpresa di provare ammirazione. Ma come? Perché? “Me ne accorsi dal desiderio di immedesimarmi, di essere come loro. Qui mi accorsi che Durkheim e Weber sbagliavano: non conosci l’oggetto perché lo quantifichi e lo oggettivi. Puoi guardarlo solo quando lo ammiri”.
Il libro di sociologia è inusualmente “pieno di nomi, di singole persone, voci incontri”: di storie particolari, “e guardate che l’universale anteposto a questo è immaginazione”. E quali furono queste storie? Il baccalà è pronto e i due sono amabilmente a tavola all’ombra di un albero.
Storie di famiglie sono unite, e che fraternizzano con altre e che accolgono. Storie di scuole dove i docenti non si definiscono insegnanti come fosse un ruolo, ma amano gli allievi e si prendono cura della loro educazione. Storie di carità. Insomma miracoli, miracoli, miracoli. Da duemila anni.
Al caffè i due hanno doppiato anche la citazione di Wittgenstein, grande insegnante ma insegnante povero per scelta (grosso modo: “Son qui nel bugigattolo al buio, e così resterò. A meno che venga Dio e mi illumini”).
Azurmedi ha fatto un passo avanti, decisivo, oltre il suo amato Wittgenstein. Non solo “plausibile che trattisi di Dio”. Ma “tocca ammettere che l’unica spiegazione plausibile di quella eccezionalità di vita è che quello che dicono sia vero”, confida a De Haro di aver pensato. “Una vita così, qualcuno l’ha prodotta”. Dire il nome di Gesù non è un arbitrio: “Ho letto centinaia e centinaia di libri sulle religioni. Mai nessuno ha detto di amare i nemici, di dare la propria vita altrimenti la perdi. Insomma parliamo non dell’idea di Dio dei filosofi, ma dell’uomo-Dio morto e risorto”.
Finito anche il caffè. I due si ringraziano e salutano. Arrivederci. Ci resta il filmato, ed è proprio da vedere.