Milan Kundera, scomparso ieri a 94 anni, non l’avrebbe mai pensato, ma in Italia L’insostenibile leggerezza dell’essere (1984) diventò un bestseller anche grazie al tormentone di Roberto D’Agostino, che, nella trasmissione arboriana Quelli della notte (1985) lo chiamava in causa a ogni piè sospinto: il che suscitò grande curiosità nel vasto pubblico per un romanzo sicuramente di non facile lettura. L’autore, nato a Brno, nell’allora Cecoslovacchia, espulso dal Partito Comunista nel 1950, ne venne riammesso nel 1956, per poi discostarsene ancora dopo i fatti della Primavera di Praga, e venendone ancora una volta espulso, questa volta definitivamente.
Trasferitosi in Francia nel 1975, e dal 1981 naturalizzato francese, Kundera dagli anni Novanta scrisse in francese; vincitore di innumerevoli premi (a partire dal Prix Médicis nei primi anni Settanta) spesso considerato in predicato per il Nobel (che mai vinse) e omaggiato dalla massima onorificenza francese, la Légion d’honneur nel 1990, vide però la sua fama perennemente legata al titolo del suo romanzo più celebre, portato anche sullo schermo da Philip Kaufman nel 1988, in un discreto adattamento, il cui punto di forza erano le presenze attoriali di Daniel Day-Lewis e di Juliette Binoche, giovani e bellissimi, nei panni dei protagonisti.
Ma, da Lo scherzo (1967) in poi, attraverso il Valzer degli addii, per arrivare alle opere degli anni Novanta e Duemila (l’ultimo suo romanzo, La festa dell’insignificanza, è del 2013), nella narrativa di Kundera compare il riflesso, soprattutto nei romanzi degli anni Sessanta e Settanta, della situazione politica sperimentata da chi aveva avuto la ventura di vivere nel clima soffocante della Guerra fredda in un Paese sottoposto all’influenza sovietica. Poi, via via, i temi della narrativa di Kundera si spostano verso i grandi temi e interrogativi dell’esistenza, verso l’amore nelle sue mille sfaccettature, ma depauperato da ogni sentimentalismo (anche se talvolta compaiono personaggi che vivono nella condizione di esuli, come i protagonisti de L’ignoranza); da ultimo, le sue opere si orientano verso una forma romanzesca in cui si riscontrano il passo e a volte sequenze di sapore saggistico.
È questo il caso di un’opera meno citata di quanto meriterebbe, ma che vale la pena di rileggere, perché, per certi versi, in essa Kundera è stato profetico: La lentezza (1995), uno dei romanzi con il tipico titolo costituito da un sostantivo astratto (L’immortalità; L’identità; L’ignoranza). Nel racconto, in un castello francese riadattato a resort e centro congressi, si svolge un convegno di entomologia; all’evento partecipano personaggi di varia umanità, tra i quali un entomologo ceco in passato allontanato dalla comunità scientifica del suo Paese per motivi politici, e una coppia di coniugi in cui è facile ravvisare Kundera stesso e la moglie.
Le vicende che si svolgono nel castello, negli anni Novanta del ventesimo secolo, si intrecciano misteriosamente, per analogia e soprattutto per contrasto, alla vicenda di un classico della letteratura libertina del XVIII secolo, Point de lendemain (Senza domani) di Vivant Denon: ciò suscita nell’autore una serie di riflessioni sul piacere e, nello specifico, sul piacere della lentezza (e dell’attesa), che i nostri tempi sembrano avere dimenticato e anzi cancellato. E Milan Kundera ce lo diceva alla metà degli anni Novanta!
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