“Se si va avanti così, vedrai che dovranno creare l’antimafia anche a Milano”, dice Ivo Garrani nei panni di Don Vincenzo, battuta involontariamente profetica del personaggio del vecchio boss in Milano Calibro 9, film poliziesco di Fernando Di Leo che usciva giusto cinquant’anni fa nelle sale italiane. Primo capitolo della trilogia noir del regista, cui rientrano anche La Mala Ordina (1972) e Il Boss (1973), il film può considerarsi a buon diritto l’atto fondativo del genere poliziesco italiano anni Settanta.
Liberamente ispirato ai racconti di Giorgio Scerbanenco, soprattutto al romanzo postumo “Stazione Centrale Ammazzare Subito”, il film di Di Leo si segnala per l’accurata caratterizzazione dei personaggi, atta a creare quel clima di sospetto e guerriglia fratricida di cui la vicenda si nutre. Inoltre, l’amarezza e il pessimismo di fondo che permeano tutto il film, abilmente innescate dall’innaturale freddezza della messa in scena, richiamano da vicino il miglior noir europeo, soprattutto quello anni Cinquanta e Sessanta del maestro francese Jean-Pierre Melville.
In una Milano livida dai tratti impersonali, il malvivente Ugo Piazza (Gastone Moschin), appena uscito di galera, viene sorvegliato sia dalla polizia che da l’Americano (Lionel Stander), suo ex boss. Questi, convinto che Ugo abbia sottratto e nascosto il bottino di un vecchio colpo, lo intende recuperare. Comincia allora una spietata caccia all’uomo. Il boss vessa Ugo cercando di farlo parlare con ogni mezzo, lo fa picchiare a più riprese dai suoi scagnozzi, arriva perfino alla vendetta trasversale infierendo sulla di lui ex fiamma (un’insolita Barbara Bouchet). Alla fine, non riuscendo a ottenere alcuna confessione – poiché Ugo con abile strategia riesce a farsi credere innocente – lo reintegra nella banda.
Come una sorta di rincorsa, il film si snoda alla stregua di un viaggio-ricerca attraverso i topoi del genere noir-poliziesco europeo, con qualche vago riferimento ai luoghi simbolo della Milano violenta dell’epoca. Convincente la trama noir aggiornata al caso italiano post-sessantotto. Più incerti invece i tentativi di dare spessore socio-politico alla vicenda, incarnati dai personaggi del commissario di p.s. e del suo vice (rispettivamente Frank Wolff e Luigi Pistilli), sempre impegnati in discussioni sulla responsabilità individuale piuttosto che sociale dei criminali che combattono.
Il film, come detto, apre un filone, anche se preceduto da un famoso capostipite, riconoscibile in Banditi a Milano (1968) di Carlo Lizzani. Il quale però non intendeva fare un poliziesco vero e proprio, nel senso di un film d’azione di genere ben codificato (Lizzani riproponeva un fatto di cronaca realmente accaduto, secondo uno stile in bilico tra il documentario e il cinema di denuncia), ma piuttosto inaugurava un cinema alla ricerca di nuovi temi e nuovi – relativamente – modi di espressione, più adatti alla rappresentazione della mutevole realtà del nostro Paese di allora.
Stante il notevole successo di pubblico – e anche di critica, Milano Calibro 9 aprì le porte a numerosissime produzioni di simile argomento. Ne sono risultati film tutto centrati sulla stessa vecchia diatriba guardie vs. ladri, anche se tra loro diversi per approccio registico, capacità degli attori e livello di budget. Cosa quest’ultima che, per questo tipo di cinema, ha diretta influenza sulla spettacolarità delle scene violente e/o di inseguimento (immancabili marchi di genere), quindi sulla qualità complessiva dei film medesimi. Comunque accomunati dalla pervasiva presenza del principale stereotipo del genere contemporaneo: i personaggi, buoni o cattivi che siano, tutti operano secondo una brutalità sbrigativa e quasi onnipotente qualunque azione facciano, qualunque relazione intrattengano. Debito stilistico e recitativo da ascrivere soprattutto a Don Siegel, regista dei polizieschi con Clint Eastwood (e non solo) della new Hollywood anni fine Sessanta e Settanta, che in tale direzione ha marchiato il genere per sempre.
Della numerosa pletora di opere emuli prodotte, ne elenchiamo alcune a campione, citando registi e principali attori, a monito e memoria della bontà del nostro poliziesco d’annata. In particolare: La Polizia Incrimina, la Legge Assolve (Enzo G. Castellari, 1973; con Franco Nero, Fernando Rey e Delia Boccardo), Uomini Duri (Duccio Tessari, 1974; con Luciano Salce, Lino Ventura e Vittorio Sanipoli), Cani Arrabbiati (Mario Bava, 1974, editato solo nel 1995 per fallimento del produttore), Roma a Mano Armata (Umberto Lenzi, 1976; con Maurizio Merli, Tomas Milian e Maria Rosaria Omaggio), Il Cinico, l’Infame, il Violento (Umberto Lenzi, 1977; con Maurizio Merli, Renzo Palmer e Tomas Milian), La Belva col Mitra (Sergio Grieco, 1977; con Helmut Berger, Vittorio Duse e Claudio Gora), Il Trucido e lo Sbirro (Umberto Lenzi, 1977), che segna l’esordio del personaggio de Er Monnezza, interpretato da Tomas Milian con il fondamentale apporto al doppiaggio di Ferruccio Amendola.
Come si nota, ricorrono attori di buono e ottimo livello, guidati da registi di indubbio mestiere, alcuni dei quali notevoli, prolifici e capaci anche in altri generi come Umberto Lenzi e soprattutto Mario Bava. Il tutto a testimoniare la qualità complessiva del filone, nonostante qualche inevitabile caduta di stile. Con una coda, anch’essa ineluttabile, un po’ troppo caciarona e scontata, riscontrabile nel sotto-filone del poliziesco misto commedia degli anni Ottanta, di cui il bravo Tomas Milian è stato – suo malgrado – il simbolo.
Tornando al “capobranco” Milano Calibro 9, rimangono infine da segnalare le ottime interpretazioni di tutti gli attori coinvolti: dal protagonista Gastone Moschin al vecchio boss Ivo Garrani, dal suo erede il sicario Philippe Leroy alla ballerina di night club Barbara Bouchet, dal boss italoamericano Lionel Stander al suo luogotenente Mario Adolf. Peccato che quasi tutti, in particolare la Bouchet, siano poi stati fagociti dal cinema più facilone degli anni appena successivi, quello della commedia sexy e della presunta commedia di costume, ormai priva di autentico spessore.
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